In scena "Le ballate di Petrica Kerempuh", di Miroslav Krleza

Il vocabolario della divisione. Il conflitto delle lingue nell’ex Jugoslavia

Che lingue si parlano fuori Trieste, negli inquieti Balcani post-jugoslavi? Esattamente fino a venti anni fa la risposta sarebbe stata semplice ed univoca: la lingua veicolare e predominante dell’area era, di fatto, il serbocroato (si, scritto proprio così, una sola parola), usato da venti milioni di persone.

Come si sa, vennero i nazionalismi ed il mosaico della Jugoslavia federale si frantumò in tanti staterelli ansiosissimi di dimostrare le proprie irriducibili specificità etniche e culturali, talora inventandole di sana pianta. Così, seguendo le nuove frontiere delle aggressive identità nazionali, le lingue sono divenute delle vere e proprie armi, dato che – come titola un recente Quaderno Speciale della rivista Limes – “lingua è potere”. Con due conseguenze.

La prima è che il serbocroato, che unificava le comunicazioni in Croazia, Serbia, Bosnia, Montenegro – oltre ad essere ben compreso in Macedonia e Slovenia – non esiste più. Anzi, per i nazionalisti sarebbe stato meglio se non fosse mai esistito, un po’ come Tito. Più ci si differenzia meglio è: così si scopre che le lingue, come per magia, si sono rapidamente moltiplicate nel serbo, nel croato, nel montenegrino, nel bosniaco.

Sono stati i croati, all’epoca di Tudjman, ad essere i più fantasiosi nel creare, nell’ebbrezza nazionalistica, una sorta di neo-lingua talvolta grottesca (come la parola aereo, avion, trasformata in zrakoplov, letteralmente “che naviga nell’aria”). Dimenticando che già nel 1850 intellettuali serbi e croati si erano riuniti a Vienna per firmare un accordo che definiva la lingua letteraria bene comune dei due popoli in grado di contrastare il predominio culturale ungherese ed austriaco. Così il vescovo Josip Strossmayer, quando creerà a Zagabria l’Accademia delle arti e delle scienze nel 1867, la chiamerà – in una logica unitarista – Accademia jugoslava, non croata. Nel 1954 un secondo accordo a Novi Sad ribadì che la lingua dei serbi, dei croati e dei montenegrini era una sola, con due alfabeti e due varianti di pronuncia. Ed un grande scrittore croato (amico di Tito), Miroslav Krleza, sintetizzò crudamente che “serbi e croati non sono che la stessa merda di vacca spaccata in due dal passaggio del carro della storia”.

Non importa. Anzi, le cose continuano a complicarsi. Nella Serbia meridionale cresce la richiesta di usare l’albanese. In Macedonia gli albanofoni hanno ottenuto il diritto di poter studiare il macedone solo dalla quarta classe, mentre i macedoni sostengono che la loro è la seconda lingua in Albania. A loro volta i greci del sud dell’Albania si sentono discriminati, mentre i serbi che vivono nel Kosovo ormai autonomo lamentano la stessa marginalità linguistica e culturale. Ed in Albania si vogliono eliminare tutti i toponimi slavi per tornare a nomi dalle pure radici albanesi.

L’uso geopolitico della lingua prosegue con animosità, alla ricerca gelosa e parossistica di infinite micro-identità etnonazionali e territoriali. Ed è inutile dire che, in questo contesto, l’Accademia jugoslava, negli anni Novanta, è subito divenuta Accademia croata, tradendo lo spirito illiristico con cui nacque. Eppure in questi mesi la linguista croata Snjezana Kordic ha creato non poche polemiche a Zagabria ribadendo – ed attirandosi così molte ire – che ciò che parlano serbi, croati, bosniaci e montenegrini non sono che varianti della stessa lingua. Punto e a capo.

Evidentemente, vent’anni dopo lo scoppio della Jugoslavia, i Balcani sono ancora in guerra: parole, accenti, modi di dire, vocabolari, toponimi e grammatiche sono oggi le armi violente pur se incruente di un conflitto puntiglioso che continua a dividere, instancabilmente. Come nelle pagine web degli hotel dove, accanto all’inglese passepartout, si ammucchiano le bandierine – croata, serba, bosniaca – delle lingue (che si vogliono a tutti i costi diverse) da scegliere per entrare nel sito. Provare per credere.

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*Vittorio Filippi insegna sociologia all’università Iusve di Venezia. Vive a Treviso ma ama viaggiare adottando lo spirito cosmopolita di Montesquieu per cui, prima di ogni nazionalità, si è uomini. E’ giornalista e da tempo si è fatto affascinare da quell’area incasinata del mondo chiamata Balcani. Con questo articolo comincia una collaborazione con East Journal che, onorata, ringrazia.

Chi è Vittorio Filippi

Sociologo, docente Università Ca’Foscari e Università di Verona, si occupa di ricerca sociale, soprattutto nel campo della famiglia, della demografia, dei consumi. Collabora nel campo delle ricerche territoriali con la SWG di Trieste, è consulente di Unindustria Treviso e di Confcommercio. Insegna sociologia all’Università di Venezia e di Verona ed all’ISRE di Mestre. E’ autore di pubblicazioni e saggi sulla sociologia della famiglia e dei consumi.

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8 commenti

  1. bellissimo articolo anche se l’erede sostanziale del serbocroato e’ il bosniaco: autentica commistione delle due varianti del serbocroato, cioe’ il serbo e il croato…usano la scrittura latina e la variante jekavica ma usano quelle parole piu’ comuni tra i serbi piuttosto che tra i croati e molte parole sono usate in forma ekavica…cosi i croati diranno točno (esatto) mentre serbi e bosniaci tačno; mentre i primi usano uopće (affatto) e općina (municipio), i secondi usano uopšte e opština…
    consapevoli di essere i portatori del seme migliore della jugoslavicita’ la maggior parte dei bosniaci non dice di parlare “il bosniaco” ma “la nostra lingua” (naš jezik)…živela SFRJ

    • Non sono completamente d’accordo – la variante (la lingua?) bosniaca ha introdotto moltissime parole di origine turca. Io, essendo serba cresciuta in Croazia, oggi faccio fatica a capire tantissime parole; anzi, intuisco il significato, non conoscendole. L’aereo – zrakoplov – sarebbe velivolo in italiano e molte di queste “nuove” parole della lingua croata hanno origine nello Stato Indipendente di Croazia e sono identiche (nel senso di traduzione letterale) a tante parole italiane.

      • jelena, “moltissime”…non esageriamo…in una conversazione quotidiana si incontrano turcismi solo in riferimento alla religione (cimitero, funerale, preghiera) e ai saluti (salam alejkum; allahamet ecc.)…
        ma mi piace smentirti con un racconto divertente personale. Io, ufficialmente, parlo il bosniaco: sono andato a Belgrado, e la gente che conoscevo “parli benissimo il serbo” e io “grazie mille”; nell’arco di una settimana sono tornato in Bosnia, ho incontrato nuovi amici e questi “hai imparato benissimo il Bosniaco” e io “grazie”; dopo una settimana sono andato al mare, in Croazia e la famiglia che mi ospitava “ma come parli bene il croato!” e io “grazie”.
        mi sono spostato di 800 km, ho cambiato 3 paesi e ho parlato, da italiano, cosi come ho imparato…
        la realta’ e’ questa: in ex Jugoslavia oggi, la lingua non e’ un mezzo di comunicazione, e’ un mezzo di identificazione e separazione

    • Giorgio, penso come te – per me serbo, croato, bosniaco e montenegrino sono sempre la stessa lingua. Però, per quello che riguarda i cosiddetti “turcizmi” (le parole di origine turca), non sono così pochi – anche le per le parentele si usano le denominazioni turche (babo, daidza), e, poi, è stata introdotta un’acca (h) nelle parole (sat/sahat) ecc…ho l’occasione di leggere (e tradurre) decine di lettere bosniache ogni mese mi capita di trovare (poche, per fortune) le parole che non conosco… Ma, anche per me rimane sempre NAS JEZIK.

      • 😉 naš jezik i sve ćemo skontati…
        comunque per esempio i bosanci mangiano molte lettere nelle parole e di fatto per esempio “sahat”, nel parlato, torna a essere “sa’at” (si allunga il suono della A)…o il nome silvija, diventa “silva”.
        comunque un amico mi diceva che in serbia in realta’ si usano anche piu turcizmi che in bosnia…il fatto e’ che non ci si fa piu’ caso e si parla e basta…come si direbbe “na naš”, bitno je da se razumijemo (razumemo 😀 )
        brava, mi e’ piaciuta la tua risposta, sul serio

  2. Articolo che ha centrato in pieno la questione:perfino mia madre leggendo oggi un giornale croato non capisce il significato di alcune parole,evidentemente introdotte nel nuovo ridicolo vocabolario croato.Incredibile poi come in Dalmazia,un paese costiero vicino a Sibenik,di fronte all’isola di Murter,un tempo si chiamava “Tiesno”,ora l’hanno ribattezzato “Tisno”.Comunque anche i serbi di Krajina continuano a parlare il vero serbocroato,infatti usano la variante jekava e le parole “vecchie”…

  3. Purtroppo l’UE non può decidere se riconoscere o meno una “lingua”, dato che ogni stato membro ha diritto a definire quale sia la propria: già oggi ci dobbiamo sorbire il maltese come 23esima lingua ufficiale, il croato sarà la 24esima. Ogni nazione post-jugoslava entrerà nell’UE con la propria singola lingua, sarà interessante vedere come si organizzeranno qua a Bruxelles per le traduzioni. Già oggi, da quanto mi dicono, i traduttori simultanei delle lingue scandinave (danese, svedese) si alternano da un giorno all’altro, per risparmiare. Basterà la crisi economica a porre le basi per il ritorno del “našili”, il serbocroato? O le lingue sono costruzioni intimamente legate agli stati-nazioni, e destinate a morire e nascere assieme a loro?

  4. Quoto Nikola.
    In Dalmazia,ma non solo i serbi,anche i croati,continuano a parlare il serbo-croato,forse in Croazia è un caso unico.
    Certo,in Dalmazia parlano i loro bei dialetti con tante parole di origine italiana o veneziana,però usano parole che in un vocabolario di croato non troveresti,ma in uno di serbo si.
    Come ad esempio: in “serbo” -nessuno- si dice -Niko- ,in “croato” -Nitko- (penso che questa aggiunta di consonante sia piuttosto inutile e patetica)…ecco,in Dalmazia,dove,come abbiamo già detto parlano ancora il serbo-croato,dicono Niko! E nessuno li giudica “serbi”,mentre in Slavonia subito ti etichetterebbero così.

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