Questo articolo è stato originariamente pubblicato da OBC Transeuropa
A un mese dal voto del 7 ottobre, la campagna elettorale in Bosnia Erzegovina sta entrando nel vivo. Come nelle ultime tornate, già assume le forme di una “tempesta perfetta” di sciovinismo, di chiusura identitaria, dell’evocazione dei traumi del passato. Un modo per ottenere consenso facile, eludere la complessità del presente e i problemi reali: corruzione, abusi di potere, emigrazione giovanile. Vi è però una novità rispetto alle ultime elezioni: il quadro internazionale, con l’ascesa dell’asse sovranista-identitario tra Washington, Mosca e vari paesi europei, sembra offrire nuove opportunità ad alcune élite nazionaliste.
Il rapporto nel mirino
Il protagonista della scena, per ora, è ancora lui: Milorad Dodik, presidente uscente della Republika Srpska (RS, una delle due entità che compongono la Bosnia Erzegovina), da dodici anni al potere e ora candidato alla presidenza collettiva statale. Dodik ha alzato i toni della campagna a modo suo, invocando la secessione della RS e lamentando che i muezzin bosniaci “urlano” quando chiamano alla preghiera, cosa che secondo lui traumatizzerebbe i vicini e farebbe cadere il valore immobiliare delle loro case.
Poi è passato ai fatti, chiedendo al parlamento della RS di annullare il Rapporto su Srebrenica che le stesse istituzioni serbo-bosniache avevano adottato nel giugno 2004 e che, secondo Dodik, si sarebbe basato su dati “falsi” e sulla “pressione della comunità internazionale”. Convocato il 14 agosto in sessione speciale e senza margini per una seria discussione pubblica, il Parlamento della RS ha approvato la richiesta del presidente a larga maggioranza, invalidando il Rapporto del 2004 nonostante i malumori dell’opposizione, l’indignazione delle minoranze musulmane e civiche, e la ferma condanne di rappresentanti UE, OSCE e ONU.
Dodik ha dato mandato al governo di formare, entro due mesi, una “commissione internazionale di esperti” che sarà chiamata a redigere un nuovo rapporto, dedicato all’intero periodo di guerra (1992-95) e a investigare “i crimini contro i bosgnacchi, ma anche contro i serbi” in modo “vero e obiettivo”, cosa che ambirebbe a smentire le conclusioni stabilite dal Tribunale per l’ex-Jugoslavia e dalla Corte Internazionale di Giustizia.
Perché tanta foga contro questo documento di 14 anni fa? Il Rapporto su Srebrenica del 2004 ammetteva i crimini commessi dall’esercito serbo-bosniaco contro la popolazione musulmana, individuando la responsabilità del generale Ratko Mladić e degli alti vertici militari, e descrivendo il trasferimento forzato, il terrore e le uccisioni sistematiche di migliaia di prigionieri tra il 10 e il 19 luglio 1995.
Pur non usando mai il termine di genocidio, il rapporto del 2004 fu tra le espressioni più avanzate di ammissione dei crimini della propria parte, in linea con la tendenza di quel periodo. Attorno alla metà degli anni 2000 infatti si realizzarono importanti atti di reciproco riconoscimento e distensione sui crimini delle guerre jugoslave, tanto in Bosnia Erzegovina come in Croazia e Serbia, che tra le altre cose aprirono la strada alla cooperazione giudiziaria tra i paesi. Nell’ultimo decennio, invece, la politica di riconoscimento si è arrestata lasciando spazio ad discorsi fondati sulla logica del “Da, ali” (“Sì, ma”, ovvero “sì, ma gli altri popoli hanno fatto altri – o peggiori – crimini”), quando non a un aperto negazionismo.
Secondo diversi osservatori, nel colpire il Rapporto su Srebrenica il partito di Milorad Dodik, l’SNSD, cerca di lucrare consenso elettorale. Il discorso identitario offre all’SNSD una distrazione di massa dai temi potenzialmente più scomodi della campagna, come l’emigrazione che sta impoverendo drammaticamente il tessuto sociale e l’economia, o la mobilitazione contro gli abusi di potere iniziata cinque mesi fa (e tuttora in corso con un presidio quotidiano nella capitale della RS Banja Luka) per il caso di David Dragičević, il ragazzo 21enne ucciso in circostanze mai chiarite dalle autorità e con la probabile complicità di ambienti vicini alla polizia locale.
La svolta su Srebrenica ha inoltre permesso a Dodik di mettere in difficoltà i suoi rivali elettorali. I partiti che oggi siedono all’opposizione in Republika Srpska, nel 2004 erano al governo e mettevano la firma sul rapporto. Per questo motivo gli attacchi dell’SNSD si sono concentrati su Dragan Čavić, all’epoca presidente della RS e oggi esponente di spicco dell’”Alleanza per la Vittoria” (SzP), la coalizione dei partiti di opposizione.
La SzP è un insieme di forze a loro volta nazionaliste anche se più moderate, con una leadership consumata e incapace di sfidare Dodik a viso aperto. La SzP ha dunque reagito in modo timido e imbarazzato, criticando il metodo e i tempi ma minimizzando sul merito della questione. È anche per questa debolezza dell’opposizione, oltre che per il ferreo controllo operato sui media, che l’SNSD di Dodik rimane – almeno secondo le ipotesi degli analisti, perché mancano sondaggi pubblici credibili – il favorito nelle elezioni in Republika Srpska.
Il fattore sovranista internazionale
Al di là del consenso immediato, in questa vicenda bisogna considerare un fattore più profondo. Milorad Dodik ha più volte insistito che la commissione su Srebrenica dovrà essere “internazionale”. È un riferimento a cui guardare con attenzione, tenendo presente che l’SNSD sta cercando di inserirsi come membro a pieno titolo di quella “internazionale sovranista” che sembra disegnarsi attorno alle varie forze della destra radicale europea, sotto la spinta dei modelli trumpiano e putiniano, con l’apporto decisivo di Steve Bannon. L’ex-consigliere di Donald Trump e stratega della alt-right statunitense ha infatti recentemente affermato che intende creare “The Movement”, un movimento-fondazione a livello continentale, soprattutto in vista delle elezioni europee del 2019.
Lo scorso 29 luglio, Bannon ha ricevuto a Washington la prima ministra della Republika Srpska e braccio destro di Dodik, Željka Cvijanović. Quest’ultima ha persino attribuito all’incontro una natura istituzionale, sostenendo che si sarebbero discusse le “relazioni tra Stati Uniti e Republika Srpska”. Quest’affermazione è apparentemente priva di senso poiché Bannon non ha alcun ruolo ufficiale nell’amministrazione Trump dal suo licenziamento nell’agosto 2017. Ma, come sottolinea Eric Gordy su Balkan Insight, la politica estera di Trump spesso prescinde dalla struttura amministrativa ufficiale per basarsi su circoli informali ristretti nei quali Bannon, presumibilmente, è tornato a occupare un ruolo importante dopo il suo licenziamento. A riprova delle ambizioni del governo RS, è emerso che l’SNSD ha ingaggiato a Washington uno staff di consiglieri americani che provengono proprio dall’entourage di Trump.
Tuttavia, oltre alle relazioni istituzionali, appare plausibile una natura strettamente politica dell’incontro Bannon-Cvijanović, con l’SNSD intento ad accreditarsi come esponente privilegiato della regione ex-jugoslava presso il nascente movimento sovranista paneuropeo. Il partito di Dodik porterebbe in dote una rete di contatti con l’estrema destra europea, i cui esponenti hanno più volte visitato Banja Luka. La FPÖ austriaca ha supportato “l’autodeterminazione” della Republika Srpska dalla Bosnia Erzegovina, uno stato multi-etnico “che non può funzionare”, mentre il movimento francese di Marine Le Pen (l’attuale Rassemblement National, ex FN) ha ripetutamente preso posizione nel Parlamento europeo a favore della RS, vista come baluardo cristiano contro il “fondamentalismo islamico”.
Infine, sono ben noti i legami Banja Luka-Mosca: l’SNSD ha una partnership diretta con il partito di Putin Russia Unita, e negli ultimi anni Dodik si è recato nove volte in visita dal presidente russo. Un legame che si approfondirà con la imminente visita a Banja Luka – il 17 settembre, in piena campagna elettorale – del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Secondo alcune fonti, Lavrov dovrebbe lanciare la costruzione di un grande centro culturale e religioso serbo-russo nella capitale della Republika Srpska.
Qui rientra in gioco il rapporto su Srebrenica. Il revisionismo sui fatti della Bosnia orientale ha una radicata tradizione sia nell’estrema destra tradizionale (si ricordino, di nuovo, le frequenti prese di posizione di esponenti del Front National o la raggelante affermazione di Borghezio secondo cui “Mladić è un patriota”) nonché in ambienti rossobruni, quelli che avvicinano sinistra reazionaria e destra identitaria. In quegli ambienti il massacro di Srebrenica si minimizza, si presenta come una montatura orchestrata congiuntamente da atlantismo e islamismo.
Anche il ruolo della giustizia internazionale viene ridicolizzato per la sua ambizione universalista e per la presunta subalternità al potere liberal-atlantista. Per questi motivi, in un futuro non troppo lontano la narrazione revisionista su Srebrenica potrebbe acquisire un grande capitale simbolico. È legittimo prevedere che Dodik sfrutterà l’occasione della “commissione internazionale” su Srebrenica per proiettarsi nel network nazional-populista mondiale e trovare appoggi negli ambienti (pseudo-)intellettuali attratti dall’antimperialismo d’accatto, dal revisionismo radicale complottista del tipo tutto-ciò-che-sai-è-falso, sempre più popolare nella cultura di massa.
“La situazione si invertirà”
A margine del suddetto incontro con Cvijanović, Steve Bannon ha rilasciato un’intervista a RTRS, la televisione pubblica della Republika Srpska. Bannon ha attaccato con abituale ossessione George Soros, definito “la fonte di tutti i mali” mondiali, e il sistema combinato di ONG e media che questo controllerebbe. “Mi rivolgo alla gente della Repubblica [Srpska]: non preoccupatevi, questa situazione si invertirà, come sta avvenendo in Ungheria e Italia”. Ironicamente, Bannon diceva queste parole ai microfoni di una TV che è posta sotto il ferreo controllo del partito al potere. Secondo molti osservatori, RTRS è completamente asservita alla propaganda dell’SNSD ed è priva dei minimi standard professionali, così come buona parte dei media tv e online operanti in Republika Srpska.
Nelle settimane successive all’incontro con Bannon, il discorso sciovinista dello SNSD si è ulteriormente radicalizzato – un’accelerazione non casuale, secondo alcuni. E soprattutto, sono aumentati in modo preoccupante gli attacchi alla libertà d’informazione. La scorsa settimana Milorad Dodik ha lanciato improvvise e pesanti accuse di ingerenza straniera contro il giornalista serbo Dino Jahić, subito rilanciate dai media vicini al governo della RS, dando origine a un vero linciaggio online.
Altre voci critiche contro il governo denunciano continue minacce e azioni più sottili e subdole, come la segnalazione di massa del profilo social così da silenziarlo, cosa successa pochi giorni fa al noto editorialista Dragan Bursać. L’episodio più grave è avvenuto la sera del 27 agosto quando il giornalista Vladimir Kovačević è stato brutalmente aggredito da due sconosciuti davanti alla sua casa di Banja Luka. Kovačević lavora per BN TV, l’unico canale televisivo della RS apertamente critico con il governo, e da tempo copre le proteste per il caso Dragičević.
Sono soltanto alcuni dei 41 casi di aggressione contro operatori dell’informazione denunciati nel 2018 in tutta la Bosnia Erzegovina, dunque inclusa l’altra entità, la Federazione di Bosnia Erzegovina, dove non mancano violenze di sospetta provenienza istituzionale e un diffuso clima di intimidazione.
Steve Bannon ha poco da “invertire” nella situazione di questa parte d’Europa. Negli ultimi decenni i suoi inconsapevoli emuli hanno già compiuto buona parte del lavoro, trovandosi da soli capri espiatori “fonti di tutti i mali” contro cui scagliarsi. Ma non è detto che nuovi “movimenti”, alleanze e manuali d’azione in nome di questo paradossale sovranismo sovranazionale, non riescano comunque a produrre effetti concreti. La campagna elettorale in Bosnia Erzegovina ci dirà anche questo.
FOTO: Siniša Pašalić / RAS Srbija