L'immagine viene dalla fossa comune rinvenuta nel 2015 nei pressi del villaggio yazida di Sinuni, la cui popolazione è stata sterminata.

Il primo genocidio del Duemila, il libro di Zoppellaro sulla persecuzione degli yazidi

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Simone Zoppellaro

Il genocidio degli yazidi. L’Isis e la persecuzione degli «adoratori del diavolo»

prefazione di Riccardo Noury

Guerrini e Associati, Milano 2017

Un gesto soltanto, memoria viva della cultura entro cui è cresciuta, un’attitudine che nemmeno il più grande dei dolori può uccidere è ciò che colpisce Simone Zoppellaro mentre si congeda da Nadia Murad, giovanissima candidata al Premio Nobel per la pace, portavoce della minoranza yazida, scampata alla prigionia dell’Isis. Attualmente residente in Germania, ha incontrato Zoppellaro per una lunga intervista, alla fine della quale Nadia ha voluto accompagnare il giornalista italiano giù per le scale, fino in strada, come si usa in tutto l’Oriente. Forse è proprio in quel momento che è nata nell’autore l’idea di approfondire lo spinosissimo tema del genocidio della minoranza yazida ad opera dell’Isis.

Attraverso viaggi, incontri, interviste e riflessioni Zoppellaro ha così dato vita a un volumetto agile e di facile comprensione, che pone di fronte ai lettori che avranno il desiderio di leggerlo un genocidio a tutti noi contemporaneo, violentissimo, contro il quale poco o niente si è fatto.

Zoppellaro parte da una premessa drammatica desunta dalle parole di Nadia Murad, che il suo libro non fa che confermare, e cioè che i genocidi seguono tutti uno schema ripetitivo e, persino, prevedibile. In esso si ravvisano la costruzione dell’odio, l’indifferenza della “zona grigia”, la violenza contro le donne per recidere i legami con la comunità di origine, la sistematica eliminazione fisica dei membri della minoranza cui si sovrappone e si confonde la volontà di cancellare qualsiasi riferimento alla loro cultura, all’architettura, alla religione. E così come vi sono i delatori, vi sono anche i giusti, coloro che mettono a repentaglio la propria vita per salvarne altre.

Un paradigma già visto, conosciuto, studiato, che conduce dal genocidio degli armeni (cento anni fa) alle violenze riviste quasi in diretta durante il conflitto balcanico degli anni novanta. Ma, vuole interrogarci Zoppellaro, se siamo così edotti, se ogni anno rispettosamente citiamo Auschwitz durante il Giorno della Memoria, perché non riusciamo a vedere, riconoscere, impedire che lo stesso schema si ripeta mentre viviamo nelle nostre “tiepide case”, per citare ancora una volta e sempre a proposito Primo Levi?

Leggere il libro di Zoppellaro pone almeno in parte rimedio a questa coltre di indifferenza che sembra ancora non volersi dissipare e che avvolge una minoranza forse troppo lontana, sicuramente poco conosciuta, certamente sottoposta a un progetto sistematico di eliminazione e sottomissione.

La storia degli yazidi non è mai stata semplice. Comunità religiosa di antichissime origini, residente nel nord dell’Iraq, attorno all’anno 1000 ha conosciuto l’influenza riformatrice di Sheikh Adi, un sufi dal grande carisma. Di derivazione dal sufismo è anche il culto dell’Angelo Pavone, l’angelo caduto, Satana per la tradizione ebraico-cristiana, purificato però da ogni elemento di malvagità o malizia. Questi e altri elementi, fra cui la vocazione al sincretismo, hanno nel tempo isolato gli yazidi, definiti spregiativamente “adoratori del diavolo” e sottoposti a diverse persecuzioni e tentativi di conversione forzata all’islam, come negli anni novanta dell’Ottocento con gli attacchi guidati dal generale dell’Impero ottomano Omar Wahbi Pasha, cui seguirono devastazioni dei villaggi da parte delle truppe personali del Sultano Abdülhamid II. Sotto Saddam Hussein sono stati sottoposti a una durissima campagna di arabizzazione, ma è nel dopo Saddam che iniziano le vere e proprie persecuzioni e violenze. Da minoranza ai margini della società, gli yazidi, che nel caos seguito all’invasione americana del 2003, si alleano alle truppe curde, iniziano una limitata ascesa sociale, che li rende invisi a molti.

Il detonatore delle prime violenze è innescato nel 2007, in seguito all’odioso caso di linciaggio che porta alla morte una ragazza yazida, innamorata di un sunnita, da parte di familiari e vicini. Poco tempo dopo una milizia armata sunnita ferma un pullman e, dopo aver separato 23 yazidi dagli altri passeggeri, li uccide sul posto. Il 14 agosto dello stesso anno due tonnellate di esplosivo caricate su quattro autoveicoli colpiscono due villaggi yazidi e provocano diverse centinaia di morti.

È però con le prime vittorie dell’Isis, l’autodichiaratosi Stato Islamico, nel 2014 che il genocidio contro gli yazidi prende le forme solo parzialmente a oggi descritte. Infedeli ed estranei al progetto di islamizzazione, gli yazidi iniziano a essere deportati dalla regione di Sinjar, uccisi se non si convertono, arruolati forzatamente, mentre le donne sono rapite, schiavizzate, stuprate, vendute. Nadia Murad è una di loro. L’attacco ha inizio il 3 agosto 2014 e, secondo fonti yazide e documenti delle Nazioni Unite, non incontra alcuna resistenza, neanche da parte delle truppe curde. Nel giro di pochi giorni 3100 civili sono uccisi, circondati e abbandonati senza cibo né acqua sul monte Sinjar, 6000 donne e bambini rapiti, di cui 3000 a oggi ancora schiavi dell’Isis. Nadia Murad si salverà grazie all’aiuto di una famiglia che le consente di fuggire verso il Kurdistan e da lì verso la Germania, primo paese al mondo, al di fuori dell’Iraq, ad avere accolto profughi yazidi, in tutto la metà dell’intera diaspora.

Oggi Nadia Murad lotta per il riconoscimento legale del genocidio yazida, che considera il primo e indispensabile passo per la concreta protezione di una comunità annientata, che rischia di non tornare mai più nel proprio territorio di origine.

 

Chi è Donatella Sasso

Laureata in Filosofia con indirizzo storico presso l’Università di Torino. Dal 2007 svolge attività di ricerca e coordinamento culturale presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino. Iscritta dal 2011 all’ordine dei giornalisti. Nel 2014, insieme a Krystyna Jaworska, ha curato la mostra Solidarność nei documenti della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano. Alcune fra le sue ultime pubblicazioni sono: "La guerra in Bosnia in P. Barberis" (a cura di), "Il filo di Arianna" (Mercurio 2009); "Milena, la terribile ragazza di Praga" (Effatà 2014); "A fianco di Solidarność. L’attività di sostegno al sindacato polacco nel Nord Italia" (1981-1989), «Quaderni della Fondazione Romana Marchesa J.S. Umiastowska», vol. XII, 2014.

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