di Mara Giacalone
Quando si inizia a parlare di Bruno Schulz, si rischia di entrare in un vortice senza fine: troppi sono gli elementi, troppe le possibilità di lavoro, troppe le immagini che ci regala. Parlare di lui, della sua arte – sia scritta che disegnata – è difficile e facile allo stesso tempo: facile se ci si limita ad imparare a memoria i concetti della sua poetica, difficile se si cerca di entrare in dialogo e gioco con lui.
Il problema degli artisti, è che ce li immaginiamo sempre e solo grandi, in età adulta, in concomitanza, cioè con il momento in cui hanno preso coscienza di sé e del mondo e hanno deciso di farne arte, di condividere con gli altri la propria particolare visione. Il bello di Schulz, è che, nonostante ci si rifaccia alla sua figura più in un’età vicina alla pensione che a quella in cui si gioca con i trenini, è impossibile eliminare quell’eterno bambino – Józef, nella finzione narrativa – che ci prende per mano e ci porta alla scoperta di un mondo bizzarro, colorato, mitico e perduto.
Non sorprende, quindi, la scelta compiuta da Nadia Terranova di una rilettura dell’autore in un libro per i bambini. Bruno, il bambino che imparò a volare – edito per i tipi di Orecchio Acerbo – è un libro stupendo. Forse dovrei tenere i commenti per me o per la fine, e invece no, va sottolineato subito. Da polonista che sta lavorando sull’autore, avevo le mie buone ragioni per “temere” un lavoro del genere; poi ho letto la storia – scritta tutta di seguito non credo occupi nemmeno metà di un A4-, e insieme ai suoi disegni – a opera dell’illustratrice Ofra Amit – mi sono fatta portare in una dimensione atemporale. Mi spiega l’autrice:
“Ho scelto di concentrarmi sul rapporto di Bruno con il padre, perché era quello che aveva colpito me, alle prime letture, e lo considero ancora il centro della sua opera. […] Per capire Bruno da grande dovevano conoscere Bruno da piccolo, così ho cercato di presentarglielo con gli episodi che a me erano rimasti più impressi”.
E infatti il testo, più che Bruno/Józef, ha come protagonista Jakub, questo padre ingombrante e difficile da trattare, con cui la relazione appare decisamente complicata, perché la sua mutevole e multiforme natura sfugge al bambino e a noi lettori. Se ai grandi può scappare un sorriso indulgente davanti ad un bimbo che crede suo padre una figura mistica e magica, per dei bambini che si avvicinano alla lettura, questo accento colorato e fantastico, si trasforma in uno spettacolo dove gli effetti speciali non mancano.
Il pompiere era il ragno, era l’uccello colorato.
Era stato anche un libro segreto,
uno scarafaggio chiazzato,
uno scampolo di stoffa ricamata,
un fiore assolato.
Però rimaneva sempre Jakub, il padre di Bruno
Come si evince da queste poche battute, il mondo di Le botteghe color cannella e Il Sanatorio all’insegna della clessidra, rivive in pochissimo spazio, in lampi colorati e in immagini che sanno di gotico alla Tim Burton e contemporaneamente di quell’impronta ebraica che non poteva non esserci. I particolari disegni incorniciano e raccontano a loro volta le stravaganti avventure di questa coppia Jakub/Bruno (Józef) in cui vediamo un bimbo con la testa un po’ grossa tentare di avvicinarsi al padre, provare ad instaurare un rapporto con lui, cercare di imitarlo, ma (che) sembra non riuscirci e si stringe il cuore davanti a questo rapporto così difficile, in cui Bruno sembra uscirne come un bambino solo, isolato, triste. Ma poi succede qualcosa. Un giorno, Jakub sparisce di nuovo. Il bambino pensa sia una delle sue solite magie, e forse è proprio così, perché anche il mitico mago demiurgo Jakub è rimasto vittima di un incantesimo, ma il peggiore di tutti, la morte. Il bimbo Bruno/Józef, reagisce come può, chiudendosi nel disegno e continuando le avventure del padre, in quello che è un dolce tentativo di arrivare a lui e di riuscire, per una volta, ad imitarlo. La narrazione va avanti con un salto temporale abbastanza importante e dal tono dolce e sognante, veniamo catapultati in un mondo reale, concreto, che ha perso colore e amore. Fino a quel momento non sapevamo dove fosse ambientata la storia, ora, per ben due volte viene fatto il nome di Drohobycz – allora Galizia polacca, ora Ucraina – e veniamo a sapere che è stata occupata dai Nazisti, che Bruno/Józef è stato rinchiuso nel ghetto perché è ebreo, che viene ucciso. La storia sarebbe potuta finire qui, perché d’altronde è così che è finita la vita di uno degli scrittori più incredibili del XX secolo, ma la Terranova ci regala ancora un paio di pagine, messe a mo’ di epilogo in cui ci racconta un’altra storia, ambientata dopo la guerra, dopo che la paura e il terrore erano stati cancellati nello stesso modo in cui erano stati cancellati i colori dalla tavolozza di Schulz. C’è una famiglia – mamma, papà, due bimbe – che arriva nella cittadina distrutta, che arriva nella vecchia casa della famiglia Schulz e trova diverse cose, tesori per dei sopravvissuti, ma è la bimba più piccola che fa la scoperta più grande: trova “decine di disegni fantastici, molti dei quali raffigurano un uccello dalle piume colorate e un bambino dalla testa grossa con in mano una matita”. Sono i disegni di quel bambino che abbiamo visto rincorrere il padre, sono i disegni di Schulz, ed è una bambina che li trova. E non poteva essere altrimenti. Non perché questo libro nello specifico sia rivolto ai più piccoli, ma perché i grandi si fermassero dal loro trantran quotidiano e trovassero tempo di commuoversi davanti ad una storia magari semplice, ma che banale proprio non lo è.
Mi dice l’autrice: “Proprio perché Schulz racconta l’infanzia, ma agli adulti, mi sembrava assurdo non poterla raccontare ai bambini. Il contenuto della sua opera mi sembrava fruibile […] Del resto, siamo noi che dobbiamo ‘maturare verso l’infanzia’. Siamo noi che ci complichiamo le cose, per loro sono semplici”.
Ed è proprio questo il punto, centrato in pieno, per di più. L’opera di Schulz è impregnata di infanzia. Non si tratta dell’immaturità gombrowiczana ma nemmeno quell’infanzia sempliciotta in cui i bambini sono tutti carini e paciosi. Per Schulz, l’infanzia contiene qualcos’altro, un ritorno all’origine, un ritorno a quell’armonia perduta che il mondo ha perso perché vittima dell’odio, della violenza, della mancanza di senso. Tutta l’opera di Schulz, tutta la sua poetica, sono un tentativo di riportare l’uomo in un tempo mitico, dove ci si sapeva ancora meravigliare per le cose… è normale che dunque – sia Schulz che la Terranova – si servano degli occhi di un bambino. Un bambino, Bruno/Jòzef, che però è grande e consapevole e ci chiede di essere consapevoli con lui. Ed è quello che fa Bruno, il bambino che imparò a volare: chiede ai bambini di non smettere di credere alla meraviglia del mondo, di continuare a credere alle cose fantastiche; chiede agli adulti di tornare indietro a sognare.
“Strano, pensa la bambina, che nonostante la testa, riesca a volare così in alto”.
E Bruno Schulz ci è riuscito. Nonostante la sua morte prematura per mano di un ufficiale nazista perché ebreo, nonostante i suoi disegni molto particolari, nonostante la sua scrittura non semplice continua a sopravvivere.E c’è riuscito anche questo libro, una (auto)biografia mityczna, per dirla con le parole di Bruno.
Il libro è anche uscito in polacco con il titolo Bruno.Chłopiec, który nauczył się latać a cura dell’editore Format.
Questo articolo è uscito originariamente su PoloniCult.