Per il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan il risultato del referendum di domenica 16 aprile ha una doppia faccia. Da una parte ha formalmente raggiunto l’obiettivo di far passare la riforma presidenzialista che egli considerava una questione di vita e di morte. Dall’altra la figura di Erdoğan ne esce indebolita e pesantemente ridimensionata. Il regime autocratico “post-moderno” che egli intende costruire è destinato nei suoi progetti ad avere un carattere primariamente plebiscitario. Ciò è del resto suggerito da quanto Erdoğan insista sul referendum come strumento di decisione politica per ogni evenienza. Ma in quella che avrebbe dovuto essere la sua prima prova di forza plebiscitaria fondata totalmente sulla sua persona, non c’è stato in realtà alcun plebiscito.
L’immagine con cui il mondo si svegliò il 16 luglio dello scorso anno, dopo la notte del golpe fallito, era quella di un leader invincibile, sostenuto dalla grande maggioranza del suo popolo, con un controllo assoluto del paese e la capacità di fare la voce grossa sul piano internazionale. Oggi ne resta solo una fotografia sbiadita. Anche prendendo per buoni i contestatissimi risultati ufficiali del referendum, Erdoğan vince con l’appoggio di una maggioranza risicatissima, mentre metà del paese gli volta le spalle.
Le due metà in cui si è spaccata la Turchia hanno anche un peso piuttosto diverso. Contro Erdoğan si sono schierate le tre principali metropoli della Turchia (Istanbul, Ankara e Smirne), la Tracia e l’intera costa egea e mediterranea. Si tratta delle aree con la più alta densità di popolazione e più rilevanti da un punto di vista economico, produttivo, politico, sociale e culturale. Si tratta anche delle zone con un più alto grado di istruzione e di consapevolezza politica, dove prevale il voto d’opinione rispetto al sistema patronale di gran parte dell’Anatolia “profonda” rurale. Tale differenza è importante per capire il reale orientamento dell’opinione pubblica del paese, nonostante gli sforzi del governo per silenziare le voci d’opposizione e fare passare esclusivamente il proprio messaggio. A queste si aggiunge il sud-est a maggioranza curda, che meriterebbe però un discorso a parte. Fedeli al presidente si sono dimostrate le coste del Mar Nero e le distese vaste ma poco densamente popolate dell’Anatolia centro-orientale.
Erdoğan ha certamente mantenuto l’appoggio – per altro scontato – di alcuni importanti centri urbani e industriali dell’Anatolia, come Kayseri o Konya. Ma ciò non basta di certo a controbilanciare la sconfitta subita ad Ankara e soprattutto a Istanbul. Quest’ultima città ha del resto un grande valore simbolico, perché Istanbul in un certo senso è la Turchia, ne rappresenta ancora oggi il cuore pulsante e spesso ne detto il ritmo e ne anticipa la direzione anche politicamente. Nella città sul Bosforo il no ha prevalso anche in alcune delle storiche roccaforti dell’AKP, come Üsküdar ed Eyüp. Segno che anche tra i conservatori – almeno in ambiente urbano – c’è chi sta perdendo fiducia nel progetto di Erdoğan, la cui fortuna cominciò proprio con il mandato di sindaco d’Istanbul tra il 1994 e il 1998. Dopo più di 20 anni la “riconquista” della città da parte delle opposizioni suona oggi come un campanello d’allarme per quanto riguarda il futuro del presidente.
Il risultato ufficiale del referendum, già di per sé deludente, potrebbe però nascondere una realtà diversa e molto più pericolosa per la stabilità del regime erdoganista. Le opposizioni – anche galvanizzate dall’ottimo risultato del fronte del no – hanno infatti denunciato brogli e frodi, e finora hanno sostanzialmente rifiutato di riconoscere l’esito del voto. L’ormai famosa questione delle schede non timbrate getta un’ombra pesante sulla regolarità del referendum, mentre centinaia di documenti e di prove video e fotografiche sembrano dimostrare diffuse irregolarità nei seggi. Il rapporto dell’OSCE è giunto del resto a dare un forte e oggettivo sostegno alle rivendicazioni dell’opposizione. La parte della popolazione turca che realmente sostiene Erdoğan potrebbe rappresentare dunque non solo una maggioranza risicata, ma essere addirittura minoritaria.
Difficile pensare che Erdoğan e il suo governo possano fare un passo indietro, o che le istituzioni preposte possano davvero prendere in considerazione i ricorsi delle opposizioni. Ma da un punto di vista simbolico ha perfino poca importanza il fatto che queste irregolarità siano o meno reali. Per un leader populista come Erdoğan, che fonda il suo potere su una concezione plebiscitaria del consenso popolare, il solo sospetto di reggersi sul consenso di una minoranza e di aver manipolato la tanto celebrata “volontà nazionale” (millî irade) costituisce un gravissimo danno.
Erdoğan non è mai stato formalmente così potente e nella pratica così debole. I poteri immensi che si appresta a esercitare si fondando infatti su una base estremamente precaria. Davanti a una situazione così incandescente è difficile prevedere che strada sceglierà il presidente turco. Il buon senso consiglierebbe una certa moderazione, almeno nell’immediato futuro. Contrariamente a quanto molti si aspettavano, il fedelissimo premier Yıldırım ha assicurato che non ci saranno altri appuntamenti elettorali prima del 2019. Segno che forse in questo momento Erdoğan e i suoi collaboratori non si sentono abbastanza forti per nuove prove di forza. Conoscendo la personalità vulcanica del presidente, esiste però sempre la possibilità che scelga alla fine di spingere sull’acceleratore per far entrare in pieno vigore il sistema presidenziale il prima possibile e stringere ulteriormente la stretta autoritaria sulla Turchia. Ma in queste condizioni il rischio che il paese gli scoppi tra le mani sarebbe altissimo.