TAGIKISTAN: I vestiti delle donne e l’identità mancata. Appunti da un paese senza rotta

In Asia Centrale gli abiti sono importanti, fanno infatti parte di un codice di riconoscimento, vero e proprio simbolo di appartenenza anche etnico, basti pensare ai copricapi di foggia uzbeka o kirghisa segnano vere e proprie linee di confine a volte inviolabili. Non è quindi un caso che i governi della regione periodicamente si premurino di dettare linee guida in merito agli indumenti permessi o meno, come recentemente avvenuto in Tagikistan dove Idigul Kosimzoda, a capo del Comitato per la donna e la famiglia ha recentemente indicato quali vestiti le donne tagike possono indossare.

In realtà le dichiarazioni della leader di questo ente governativo sono più che altro rivolte ad accusare, come già avvenuto in passato, le donne indossanti l’hijab di essere legate al mondo della prostituzione e, di conseguenza, corruttrici dei costumi nazionali. Nel Tagikistan dell’era Rahmon non è la prima volta che gli abiti islamici, e qualche barba, sono presi di mira: era già successo nel 2005, nel 2007, nel 2010 ed ancora nel 2015. Ad essere presi di mira sono solitamente gli ambienti universitari. Sembra quindi evidente la difficoltà delle autorità di rendere effettivi tali divieti.

La vicenda ci rimanda a questioni più complesse, ossia la creazione di una identità tagika ed il ruolo che l’Islam, o come vedremo alcune forme di Islam, vi debba giocare. Retto da una classe di vecchi dirigenti ex-comunisti, il Tagikistan è un paese musulmano per oltre il 90% in cui l’ateismo comunista non ha mai attecchito, tanto che anche durante gli anni dell’Unione Sovietica forme popolari di insegnamento religioso e di culto, soprattutto popolare, non sono mai scomparse. Ottenuta l’indipendenza la classe dirigente si trovò a dover gestire una difficile transizione.

Unico paese centroasiatico a sprofondare nella guerra civile (1992 – 1997), in cui le differenze etniche ebbero ben più peso di quelle religiose, il Tagikistan si trovò a legittimare, in nome della riconciliazione, un’opposizione politica musulmana legalmente costituita, vale a dire il Partito della Rinascita Islamica. Il governo tagiko cercò quindi di recuperare l’Islam come elemento centrale dell’identità del paese, progettando la più grande moschea dell’Asia Centrale, finanziata dal Qatar ed ospitando nel 2010 il summit dell’ Organizzazione della conferenza islamica.

Tuttavia questo islamismo di stato non ha mai permesso la nascita di alternative di potere, come dimostra la distruzione di numerose moschee, alcune trasformate in centri estetici, in quanto luoghi sovversivi e la messa fuorilegge del Partito della Rinascita Islamica. Questo mentre la moglie e la figlia del presidente Rahmon hanno fatto, giusto un anno, un pellegrinaggio alla Mecca indossando proprio il vituperato hijab. Dimostra che la questione, come in altre parti dell’Asia Centrale, sia legata a questioni identitarie anche il fatto che insieme agli abiti islamici vengono spesso presi di mira anche quelli troppo occidentali.

Quello che sta avvenendo in Tagikistan ma anche altrove – la questione identitaria interessa profondamente anche il vicino Kirghizistan – è il tentativo di gestire un mondo globalizzato che proietta questo angolo di Asia in un contesto dove i concetti di spazio e tempo si fanno labili, dovendo destreggiarsi tra un radicalismo islamico sulla porta di casa (si pensi al confine tagiko-afghano) ed uno stile di vita occidentale sempre più vicino, finendo con l’adottare la giornata dell’8 marzo ma trasformandola in festa della mamma. Una situazione dove la ricerca d’identità si fa quindi pressante.

Capire quanto sia davvero presente un pericolo jihadista per il Tagikistan è difficile – il governo non ha mai fornito dati certi minimizzando, oppure esagerando, a seconda della convenienza la partecipazione di tagiki allo Stato Islamico. Oggi sembra tuttavia essere certo che il numero dei militanti tagiki è molto alto per quanto riguarda le azioni suicide, un dato forse legato alla rapida ascesa di Gulmurod Halimov, ex-comandante delle forze speciali tagike disertore per unirsi allo Stato Islamico. Resta il fatto che difficilmente un’identità imposta dall’alto potrà rivelarsi duratura.

Fonte immagine: life.ansor.info

Chi è Pietro Acquistapace

Laureato in storia, bibliofilo, blogger e appassionato di geopolitica, scrive per East Journal di Asia Centrale. Da sempre controcorrente, durante la pandemia è diventato accompagnatore turistico. Viaggia da anni tra Europa ed Asia alla ricerca di storie e contatti locali. Scrive contenuti per un'infinità di siti e per il suo blog Farfalle e Trincee. Costantemente in fuga, lo fregano i sentimenti.

Leggi anche

funerale

In Tagikistan alla ricerca dei “ritmi dei tempi perduti”: intervista ad Anisa Sabiri

East Journal intervista cinque registi di cinque film che partecipano al Calvert Journal Film Festival. Anisa Sabiri parla di "Rhythms of Lost Time", di come canti e balli tradizionali tajiki rischino di scomparire, e dell'importanza delle tradizioni e della comunità.

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com