Lo scorso mese la regione del Nagorno-Karabakh è tornata a far parlare di sé a causa dell’ennesima escalation di violenza tra armeni e azeri, che ha causato decine di vittime da entrambe le parti. Una delle principali cause di questa perenne situazione di tensione è il rifiuto di entrambe le parti in conflitto di avviare un dialogo costruttivo; con Yerevan e Baku che hanno invece preferito arroccarsi sulle rispettive posizioni. Negli anni, per rafforzare e legittimare il proprio potere e aumentare i consensi della popolazione, i due governi hanno iniziato a propagandare nei rispettivi paesi una forte retorica nazionalista che ha finito per creare nel tempo sentimenti di odio verso l’”altro”; originando una frattura insanabile tra i due popoli che ha reso finora impraticabile qualsiasi tentativo di riconciliazione.
Così, in un contesto di forte odio reciproco, dalle parti di Yerevan e Baku chiunque abbia provato negli ultimi anni a fare un passo indietro provando a riconoscere colpe e responsabilità del proprio governo in merito al conflitto armeno-azero, ha finito spesso per essere accusato di essere un traditore della patria o una spia, subendo come conseguenza processi di discriminazione e di emarginazione dalla società.
Una di queste persone è Akram Aylisli, scrittore azero candidato al Nobel per la pace e diventato famoso a livello internazionale grazie al libro “Sogni di pietra” (2012), dove ha denunciato i pogrom subiti dalla popolazione armena in Azerbaigian tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, riprendendo anche i massacri di inizio Novecento subiti dalla stessa popolazione armena ad opera dei turchi ottomani. Appena dopo aver dato alla luce la sua opera, Aylisli, che fino a quel momento in patria era uno scrittore stimato, ha finito per ritrovarsi improvvisamente al centro di una violenta campagna d’odio, con tanto di roghi pubblici del suo libro organizzati in tutto il paese e di assegnazione di una taglia da 10.000 euro – successivamente ritirata – garantita a chiunque avesse voluto mozzargli un orecchio.
Recentemente, lo scrittore azero si sarebbe dovuto recare in Italia per partecipare al festival “Incroci di civiltà“, rassegna di letteratura internazionale svoltasi a Venezia, dove Aylisli avrebbe dovuto presentare il suo libro. Una volta arrivato all’aeroporto di Baku però, prima di potersi imbarcare sull’aereo che lo avrebbe dovuto portare in Italia, Aylisli è stato fermato dalla polizia locale, che lo ha trattenuto per più di 10 ore facendogli perdere il volo e impedendogli così di prendere parte all’incontro. Le autorità azere hanno successivamente giustificato l’accaduto accusando Aylisli di aver creato disturbo pubblico, ostacolando le guardie aeroportuali e molestando i passeggeri. Dopo averlo interrogato, prima di rilasciarlo la polizia gli ha inoltre ritirato il passaporto e lo ha denunciato per un presunto episodio di teppismo, con l’accusa di avere colpito uno degli agenti che lo aveva perquisito.
In seguito a questa disavventura Aylisli ha subito ricevuto un messaggio di solidarietà da parte degli scrittori ospiti del festival “Incontri di civiltà”, a cui avrebbe dovuto partecipare, i quali hanno firmato un appello a sostegno del collega azero. Tra i ventuno scrittori che hanno deciso di firmare l’appello vi sono Paco Ignacio Taibo II, Alexandar Hemon e A Yi. Da parte sua, per difendersi dalle accuse ricevute, lo scrittore azero ha inviato una lettera aperta al presidente Aliyev, chiedendo giustizia per sé e per la sua famiglia; la stessa lettera ha finito però poi per rivelarsi un’arma a doppio taglio, in quanto pochi giorni dopo nei confronti di Aylisli è stata mossa anche l’accusa di resistenza alle autorità, per la quale il codice penale azero prevede fino a tre anni di reclusione. Intanto, nonostante il polverone mediatico che questa vicenda ha creato, il presidente Aliyev ha preferito non commentare l’accaduto.
Di casi come quello di Akram Aylisli ne sono stati registrati diversi nel paese caucasico; bisogna però ricordare che come in Azerbaigian, anche in Armenia viene riservato un trattamento discriminatorio nei confronti di chi prova a sostenere il processo di riconciliazione cercando di riconoscere le responsabilità del proprio governo riguardo alle numerose violenze subite dalla popolazione azera del Karabakh nel corso della guerra.
Se si vuole mettere la parola fine a questa complicata disputa che dura ormai da oltre due decenni, è però necessario che i due contendenti mettano da parte le retoriche nazionaliste e che l’uno provi a comprendere le ragioni dell’altro, poiché nel conflitto tra armeni e azeri la ragione non sta da una parte sola.