di Marco Magnano
Guardare negli occhi Mossi Raz significa leggere una visione del rapporto tra Israele e Palestina molto differente da quella, quasi monodimensionale, che sembra trasparire dalla politica di Tel Aviv se osservata dall’esterno.
Fino ai primi anni Duemila, la sua storia non è molto differente da quella di molti politici israeliani: nato a Gerusalemme, è stato comandante del Maglan, un’unità di élite dell’esercito specializzata in operazioni dietro le linee nemiche, finché nel 2000 è entrato nella Knesset, il Parlamento israeliano, con il partito di sinistra Meretz. Nel 2004, l’anno dopo aver concluso il suo mandato parlamentare, Raz è stato fondatore di uno tra i più ambiziosi progetti nel mondo della comunicazione del Medio Oriente, quello della radio All For Peace. Si tratta della prima stazione radio gestita in modo congiunto da israeliani e palestinesi, con trasmissioni in ebraico e in arabo, nata con lo scopo dichiarato di favorire il dialogo e la produzione di informazione condivisa, in grado di superare una barriera che fisicamente è rappresentata dal muro che separa la Cisgiordania da Israele e che nella vita di tutti i giorni è rafforzata da un clima di diffidenza e assenza di dialogo.
Attraversando molti momenti difficili, come la chiusura imposta in Israele nel 2011 per “aver trasmesso illegalmente”, la radio continua le sue attività, ma Mossi Raz è stato recentemente chiamato a una nuova sfida, quella di fornire nuova forza al fronte progressista israeliano: a ottobre, infatti, è stato nominato nuovo Segretario Generale di Meretz. La sua presenza in Italia in occasione di Semi di Pace, l’iniziativa che ogni anno la rivista Confronti propone per favorire il dialogo tra israeliani e palestinesi, è l’occasione per cercare di capire quali soluzioni siano ancora percorribili in momento nel quale non sembra esserci una via d’uscita dal conflitto.
Visto dall’esterno, in questo momento il dialogo tra Israele e Palestina sembra congelato. È davvero così?
«Sì, esatto. Non c’è nessun dialogo, nessuna negoziazione, nessuna fiducia. Gli israeliani non si fidano dei Palestinesi e viceversa, e non c’è nessuna ragione per negoziare, perché in ogni caso non ci si fida dell’altra parte».
È possibile individuare nella storia, anche recente, un momento di rottura, a partire dal quale il dialogo tra le parti è venuto meno?
«Ce ne sono stati molti: l’ultimo due anni fa, quando Tzipi Livni era in carica come ministro della Giustizia e l’attuale Segretario di Stato americano Kerry disse “abbiamo nove mesi per negoziare”. Quando, dopo questi nove mesi, non si ottenne nulla, tutto collassò nuovamente. Erano proprio quelle negoziazione ad essere inutili, non avevano nessuna possibilità di portare a risultati.
In fin dei conti, però, è dal 2000 che questa situazione va avanti. Negli ultimi 16 anni, dalla seconda Intifada in poi, gli Israeliani non credono ai Palesinesi e i Palestinesi non credono negli Israeliani. Ci sono stati dei giorni di negoziati qua e là, ma fondamentalmente non ci sono vere trattative da 16 anni».
Finora abbiamo parlato di leadership, ma se parliamo di popoli c’è qualche momento di dialogo?
«No. Vede, le nazioni in tutto il mondo hanno sempre supportato le guerre, non c’è nessuna guerra che sia stata direttamente indirizzata dalla popolazione. Le nazioni hanno sempre supportato i conflitti perché è più facile dire che l’altra parte sia cattiva, crudele, che sia l’aggressore, è facile dire “non ci vogliono e non possiamo fidarci”. Anche a livello di base popolare, sono davvero pochi gli Israeliani e i Palestinesi che lavorano insieme, mentre la maggior parte supporta l’idea di non parlare con l’altra parte, non cooperare, non fare niente insieme, perché vedono gli altri come nemici».
Questo è dovuto a una vera e propria mancanza di opportunità di incontro?
«La mancanza di occasioni di incontro è uno dei motivi, ma non è quello principale, perché ci sono luoghi a Gerusalemme o in Cisgiordania in cui le persone possono incontrarsi se lo vogliono davvero. Ma non vogliono».
Uno dei momenti di maggiore tensione lo scorso anno per il primo ministro israeliano Netanyahu è stato l’accordo sul nuclare tra Iran e Stati Uniti. Lei è d’accordo con il Primo Ministro sul fatto che sia una minaccia per la sicurezza globale?
«Sì, sono d’accordo, ma non credo sia il nodo principale. Vede, il nucleare è un rischio per il mondo, e il nucleare in mani antidemocratiche, come in Nord Corea, in Iran o in Pakistan, è ancora peggio. Il nucleare, però, è un rischio ovunque, e naturalmente lo è ancora di più quando il potere è nelle mani di dittatori dei quali non ci si può fidare».
Quindi anche secondo lei l’accordo non allontana la minaccia?
«No, non sto dicendo questo. L’accordo è molto positivo per Israele, per l’Iran e per il mondo, e riduce davvero i rischi per la sicurezza, ma non si può dire che il rischio non ci sia. Anche se riduci il pericolo, il pericolo continua a esistere».
Con il sistema elettorale israeliano è molto complicato ottenere la maggioranza in Parlamento. Come leader di Meretz, quali sono le sue idee per la costruzione di un fronte progressista forte e unito?
«La strategia centrale è quella di gestire meglio i problemi di sicurezza. È importante per le persone, e noi abbiamo la risposta giusta, che invece la destra non ha. L’occupazione è soltanto un pericolo per la sicurezza sia degli israeliani, sia dei palestinesi, e non solo un rischio: lo vediamo ogni giorno sul terreno, israeliani e palestinesi pagano il prezzo dell’occupazione e della guerra, quindi la nostra risposta dovrebbe fare breccia nell’opinione pubblica israeliana.
L’errore della sinistra in Israele nell’ultimo decennio è stato focalizzarsi sulle questioni economiche in un periodo nel quale Israele si trova in pieno boom economico. Quando sono venuto qui l’ultima volta, dieci anni fa, l’Italia era nettamente più in alto di Israele in termini economici. Oggi è l’opposto. Quindi non puoi lottare su un piano economico quando l’economia va così bene».
Tornando alla questione del conflitto israelo-palestinese, al giorno d’oggi la soluzione dei due Stati è ancora praticabile?
«Certo, non c’è nessuna altra possibilità. Io sono un sostenitore di ogni modello che possa assicurare il rispetto dei diritti umani e della sicurezza di Israeliani e Palestinesi. La soluzione a due Stati è l’unico modello in grado di garantirlo. La soluzione a uno Stato solo, cioè quella attuale, è uno stato di apartheid, senza alcun tipo di accordo tra le parti. Tuttavia, nella destra israeliana la soluzione a uno Stato è molto popolare, perché garantisce alla maggioranza ebraica che i Palestinesi debbano rinunciare al diritto di ritornare nei luoghi d’origine e nel contempo afferma il diritto al ritorno degli ebrei che si trovano all’estero. Questa è la democrazia: la maggioranza decide, però questa soluzione non può funzionare».
Parlando di soluzioni, il conflitto tra Israele e Palestina si può risolvere internamente o c’è bisogno di un’azione internazionale?
«Prima di tutto non c’è niente di interno, perché stiamo parlando di due nazioni e di due Stati, quindi la questione è internazionale sin dal principio. In secondo luogo, certamente sarebbe meglio se il Primo Ministro di Israele e il Presidente della Palestina potessero trovare un accordo da soli, ma è evidente che non possano, e quindi c’è bisogno di un aiuto internazionale. Ho detto un aiuto, non una prescrizione, non soluzioni imposte, assolutamente no. C’è bisogno di un aiuto».
Cosa pensa dell’ipotesi di un arbitrato internazionale?
«Penso sia davvero un’ottima idea, perché aiuterebbe le due parti a far vedere che prima di tutto si stanno tutelando i propri interessi, ma che poi alla fine è necessario un compromesso. Poniamo che il Primo Ministro di Israele faccia un compromesso con il Presidente della Palestina: ritornerebbe dal suo elettorato e questo gli direbbe “ma perché hai fatto così tanti compromessi? Come l’hai potuto permettere? È stata una pessima scelta”, però se lui rispondesse “l’ho ribadito due, tre, quattro volte, ma questa è la decisione e non possiamo fare altro” allora probabilmente il tutto sarebbe più accettabile per entrambe le parti».
C’è un modo per Israele di trovare una soluzione a due stati senza per questo rimanere schiacciata rispetto al mondo arabo, che preme a livello geografico e geopolitico?
«Penso che sia vero il contrario: se abbiamo una soluzione a due Stati allora questa sarebbe la premessa per una normalizzazione dei rapporti. Questo l’ha detto anche L’Iniziativa di pace della Lega araba. I 22 Paesi arabi vogliono fare la pace e normalizzare i rapporti con Israele, a patto che si torni ai confini del 1967 e si trovi un accordo equo e condiviso per il problema dei profughi. Questa è la condizione per avere la pace con i 22 stati arabi, altrimenti non ce l’avremo mai né con loro né con i 57 stati islamici che hanno deciso di sostenere questa posizione nella Conferenza di Teheran del 2003. Ecco, penso che la soluzione dei due Stati sia il modo per far uscire Israele dall’isolamento».