STAN-Project: Diyarbakir, l'altra faccia del Kurdistan

L’entrata a Diyarbakir passa dalla nuova stazione costruita nel bel mezzo di un non-luogo, con centinaia di nuovi edifici a spezzare il panorama tra grattacieli e un’intensa politica di sviluppo edilizio: con molta probabilità il tentativo di riconciliare la politica nazionale con la questione curda, passa proprio da qui.

Delle antiche mura (le seconde più imponenti al mondo, dopo la Grande Muraglia) danno il benvenuto al viaggiatore verso la città vecchia, un misto di stili e dominazioni dove eredità differenti preservano ancora le loro tracce. Tra queste mura, a chiunque cerchi una storia, basta bussare a una porta.

Sono rimaste solo tre famiglie armene in questa città da mezzo milione di abitanti” afferma una partecipante alla funzione. Celebrano il Natale Armeno, nella Chiesa Ortodossa Siriana: la loro fratellanza, sancita da un passato di persecuzioni simili, ha fuso per questa giornata (il 6 di gennaio) il rituale arcaico di due chiese diverse sotto luci soffuse e una liturgia in aramaico. In totale sette persone (di cui due ultra-ottantenni e due donne con rispettivi bambini addormentati) hanno preso parte alla messa, scambiandosi pane e formaggio e condividendo il senso di una comunità perduta.

Prima del 1915 la comunità armena costituiva un terzo della popolazione di Diyarbakir, insieme all’assiro-caldese, ma le pesanti persecuzioni, le marce della morte verso l’Anatolia e la diaspora ne estirparono quasi completamente la presenza in città.

Spostandosi di qualche centinaio di metri nel centro della città si trova l’antica Chiesa Armena Surp Giragos, da poco riaperta in seguito a un lungo restauro. Le sue campane, dopo un persistente silenzio durato 96 anni, ogni giorno suonano alle 16:00, raramente viene celebrata una funzione ma le candele vi brillano sempre dentro, segno di una riscoperta e riconversione al credo armeno (Dulma) da parte dei convertiti all’islam durante le persecuzioni kemaliste. La comunità armena sembra crescere di numero, rispetto alle tre antiche famiglie.

Diyarbakir è più conosciuta come la capitale del Kurdistan turco con il suo 70% di popolazione parlante il curdo. Le piccole stradine del centro mostrano spesso murales con la scritta “Kurdistan” o il sostegno al PKK. Le moschee sono gli edifici religiosi più numerosi. Una moschea, Tulu Ama, costruita sulle fondamenta della vecchia Chiesa di San Tommaso, vede i feleli pregare in direzione della Mecca, tra le sue tre arcate e l’altare posto lateralmente.

Nel centro culturale curdo la gente siede intorno a una vecchia stufa bevendo del tè e accennando di tanto in tanto una melodia della tradizione curda, con gli stessi toni malinconici ed espressioni serafiche di una promessa mancata. Essi sono i più influenti esponenti della cultura curda.

Nella casa del Dengbey si confrontano diverse generazioni di cantanti melodici curdi, a turno cantano una canzone con un pathos tutto loro, stringono tra le mani coroncine del rosario musulmano, ne girano le perle tra le dita, mentre il canto disperato inonda l’atmosfera. Degli ospiti curdi d’Iran entrano nel cerchio e cantano le loro nenie curde, i locali ascoltano attenti, annuiscono, applaudono. Il sogno curdo sembra essere unito da queste canzoni, dove la fratellanza viene riespressa anche qui, nel canto, nella melodia di un popolo diviso tra stati diversi.

Gli incontri di novembre tra Erdogan e il leader curdo-iracheno Barzani sono stati una presa in giro per noi” afferma un ragazzo. L’incontro, voluto come segnale distensivo del governo turco verso la questione curda, si è svolto proprio a Diyarbakir, senza coinvolgere i leader curdi di Turchia e svelando, neanche troppo velatamente, i veri obiettivi di Erdogan: dare un contentino ai curdi di Turchia ma al contempo rafforzare i rapporti commerciali con l’elite curdo-irachena, soprattutto in tema di export e petrolio.

Nella Mahalla circostante -il vicinato- infine, è povertà. Un intreccio labirintico di baracche colorate mostra la miserabile condizione in cui la gente – soprattutto i bambini- è costretta a vivere, tra fango, pneumatici fumanti e spazzatura gettata di fronte al fiume Tigri. In quest’area, l’eredità della Via della Seta scompare e sembra difficile pensare che la culla della civiltà risieda proprio qui, tra sacchetti di plastica e monossido di carbonio a bruciare sotto gli archetti delle mura di cinta.

E’ proprio qui che è palpabile il disinteresse governativo verso la questione curda, mentre gli sforzi vengono tutti concentrati nelle costruzioni massive e nel commercio estero, fuori dalle mura e fuori dai confini.

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