Rumiz ne ha combinata un’altra delle sue. E’ un piacevole tormento per quanti come me seguono con trepidazione ogni nuova avventura dello scrittore triestino. “Trans Europa Express” è l’ultimo suo libro edito da Feltrinelli, una trasposizione di un grande viaggio compiuto nell’estate del 2008 partendo da Kirkenes, Norvegia estrema, per fare capolino a Odessa, magica città ucraina sul Mar Nero. Nel mezzo, località come: Murmansk, Kaliningrad, Velikaja Guba, Narva, Ludza, Turka, Cernivci. Seimila chilometri macinati in treno, bus e raramente in auto. Sei chili di zaino, un piede zoppo e una cartina autoprodotta di una Europa assopita dai confini nazionali. E’ così che Rumiz, eterno nostalgico di tempi autentici, parte alla ricerca di regioni che la geografia del Novecento ha spazzato via: “Sulla mia carta fai-da-te non sono annotati stati-nazione, ma antiche regioni frontaliere inghiottite dalla geopolitica”. Botnia, Carelia, Livonia, Curlandia, Latgallia, Masuria, Polesia. Un viaggio verticale a ridosso delle frontiere, entrando e uscendo continuamente dalla fortezza Europa.
Ancora una volta, Rumiz sceglie i luoghi dimenticati dal turismo, ma anche dalle istituzioni, alla ricerca di minoranze storiche aggrappate ad antichi rituali, “Genti di Dio”, come le chiama la sua compagna di viaggio e nota fotografa Monika Bulaj. In 231 pagine la penna dello scrittore ci restituisce il caleidoscopio di un mondo sotterraneo: paesaggi ancora autenticamente contadini, contrabbandi transfrontalieri da film, il vuoto lasciato dagli ebrei e i danni dei pogrom, l’impareggiabile ospitalità degli Ultimi, la meraviglia dei treni russi con i loro samovar, i campanili a cipolla, i mercati con ogni ben di Dio, le locande dove si coagula un’umanità pittoresca.
Un elogio commovente ad un mondo che sta scomparendo, sotto l’egida dell’Unione Europea, che con il suo rigore farmaceutico sta spazzando via un universo pieno di colori e sapori, di tradizioni e usanze, il gusto dell’imprevisto e del proibito, la capacità di inventare stratagemmi di sopravvivenza, ma soprattutto sta cancellando anche un modo autentico di stare assieme. E’ preoccupato Rumiz per la generazione dei ventenni, sempre più avulsi dalle proprie radici, con la fissazione dell’Occidente e il fascino della tecnologia. Nessuno coltiva più la terra, l’emigrazione è una emorragia continua e i vecchi che rimangono aggrappati a queste terre di mezzo tirano a campare.
Nel racconto di questo straordinario viaggio a zig-zag nelle periferie orientali dell’Europa – che per Rumiz sono il centro ideale del Continente – emerge un messaggio limpido come gli occhi celesti di una circassa: dentro questa Europa di Schengen, attanagliata da regole e rigide consuetudini, stiamo perdendo pericolosamente valori centrali dell’esistenza umana e l’abitudine a confrontarci con la necessità e l’imprevisto. Soprattutto ci stiamo disabituando al confronto intergenerazionale, a conoscere la terra e i suoi prodotti, i nomi dei luoghi e dei fiumi, perdendoci nell’asetticità di binari di vita tutti uguali, dove sembra che nessuno abbia più tempo a disposizione. Attenzione, dice Rumiz, “dopo l’omologazione sovietica arriva quella targata UE”.
Cara Silvia Biasutti, da ignorante di questioni geopolitiche e politiche in generale, ma da 65enne non me la sentirei di usare quel suo tono pur pacato ma un po’ irridente nei confronti del vecchio Rumiz. Anch’io nel mio piccolo vengo a volte bonariamente preso in giro per le mie aspirazioni “piccolo-tirolesi”.
Sarà che la nostra generazione, credo un po’ per ignoranza strutturale della formazione media italiana ha scoperto – a muro ancora in piedi – che l’Europa ereditata da Jalta era costituita da due pezzi. Un pezzo reale, meta di viaggio dei più: Inghilterra, Francia, Spagna (anzi Londra, Parigi, Barcellona-Madrid, Amsterdam etc) e un pezzo rimosso, un “hic sunt leones” del nostro tempo. Per cui un discorsetto tra amici a Napoli alla fine degli anni ’60 poteva andare più o meno così:
– Che te ne fai quest’estate?
– vado a Praga.
– Dove?
– a Praga
– In Russia?
– No, in Cecoslovacchia
– E che ci vai a fare?
– Ma come, hai letto di Dubcek … la “primavera” … Jan Palach … i carri armati sovietici…?
– Ah, si… e tu che c’entri?
– Ma come che c’entro … e poi è la città di Kafka
– Ah, Kafka…
Per cui ti aggiravi nelle città della mitteleuropa portandoti a casa un mare di esperienze, di incontri, di visioni di cui non potevi parlare con nessuno. Una suggestione continua tra il “mondo di ieri” e quell’omologazione di cui si parla nell’articolo, ma all’epoca, di stampo socialista. Tra squallidi supermercati dagli scaffali vuoti, e la guerra del cambio clandestino, che vedeva gli abitanti delle città, spesso dignitosissimi signori anziani, offrirti il cambio della moneta locale a 10 volte la valuta che ti portavi dietro (meglio marchi e dollari) per poter aver accesso a negozi colmi di ogni ben di dio, dove però si poteva acquistare solo in valuta straniera. Piazze e palazzi che mostravano tutto il fascino dell’epoca in cui erano stati creati e non sembravano fatti ieri come in un parco tematico, alla ricerca dei “laghi Patriaršie” della “Zlatá Ulička”, della “via dei Coccodrilli” di Volinie di Galizie, della mitica Bukovina, Cernowitz. Scoprendo il teatro romano di Alba Julia in Romania, la “Košice” (Kassa) di Bela Khun senza Marai, che forse in quegli anni stava a Posillipo. E tra ricordi del passato e necessità dell’allora presente si accarezzava forse prima degli altri, un futuro che il polverone della caduta del muro avrebbe mostrato senza maschera.
Questo tentare di riappropiarsi di un’Europa più larga di quella circoscritta della menzogna atlantica dove il centro non poteva essere il Reno ma Praga dove s’incrociano gli assi cartesiani dell’europa, altrio che Europa dell’Est! dell’Est di che?! Ripellino ironicamente ricordava che Praga è ad occidente di Foggia. Ma alla basa di questa “Ostalgie” ante litteram, non c’era un rigurgito reazionario. C’era forse un legittimo modo di reagire all’imposizione geopolitica postbellica che ha creato mostri bipartisan come il silenzio sulle foibe, l’Istria e il muro di Gorizia (caduto dopo quello di Berlino) un modo, credo, di resistere al pensiero unico che oggi domina su tutto.
Gentile Enzo Salomone,
Mi dispiace che Lei abbia travisato la recensione. Se prova a leggerla con piu’ attenzione capirà che il mio è un elogio a questo libro, nonchè all’intera produzione letteraria di Rumiz.
Saluti.
Che bella recensione, Silvia: delicata, dagli assaggi bilanciati, sognante e realista allo stesso tempo. Ora ho proprio voglia di leggere Trans Europa Express!
Ciao Silvia, bella recensione ! Io l’ho comprato settimana scorsa (era tempo che non compravo un libro vero :), ora lo sta leggendo mia mamma…
bellissima recesione!
sarà decidamente il prossimo libro.. e Rumiz dovrebbe ringraziarti 🙂
Voglio dire una cosa : io sono slavo-russo e per questo per me non c’è discussione, perchè mi sono sempre piaciute le differenze etniche in Europa orientale e per me non possono semplicemente sparire perchè a qualcuno in occidente piace la tecnologia; il folklore popolare è patrimonio di tutti e io lo amo a prescindere dalla ragione e dalle mille leggi che regolano l’Europa occidentale. Torniamo alla campagna, torniamo alla campagna !!!
Brava Silvia, bella recensione. Complimenti.
Condivido la recensione di Silvia Biasutti. Non comprendo il senso della polemica del signor Salomone, dal momento che, mi sembra, condivide l’amore e la passione di Paolo Rumiz per “le terre di mezzo”, in sintonia con la Biasutti e con tanti altri, tra cui la scrivente. Mi interesso molto di cultura europea e ritengo che il racconto di Rumiz offra un prezioso contributo a capire che cosa è successo e cambiato negli ultimi decenni del novecento.
Presenterò il libro il 23 ottobre a Modena in un circolo anziani