madrepatria

Dove inizia la madrepatria? Dal punto di vista dell’Ucraina

Appena indipendente, l’Ucraina si è trovata subito gravata dalle angosce che hanno da sempre caratterizzato la nascita di una nazione, inasprite dalla consapevolezza di essere nel mirino di Mosca e di un nazionalismo russo sopito ma non estinto. Per tutti gli anni  Novanta del secolo scorso, l’Ucraina è sempre stata descritta come uno Stato debole, con scarse prospettive di stabilità e di sviluppo. Secondo un’analisi della CIA del 1992 c’erano buone possibilità che il paese andasse in pezzi in un paio d’anni. Non è stato così.

La democrazia si è radicata nella cultura politica ucraina pur con un alto livello di conflittualità ma l’alternanza di governo è stata una costante. Chi dice che in Ucraina non vi è democrazia, dice un’assurdità, soprattutto se fa il confronto con la Russia dove di democrazia non vi è mai stata neanche la minima parvenza. Certo, l’Ucraina è una democrazia imperfetta. Basti pensare che il primo presidente Leonid Kravčuk, che aveva promosso una nazione politica e non etnica, fu sconfitto nel 1994 da quello che era stato il suo primo ministro, Leonid Kučma, espressione di una classe dirigente oligarchica e affaristica che, parallelamente a quanto avveniva in Russia, aveva tratto profitto dalle privatizzazioni e che per un decennio avrebbe dominato la scena politica nazionale.

Qualcosa cambiò con l’ascesa di Viktor Juščenko che, da governatore della Banca Centrale e da primo ministro, avviò riforme economiche di chiara ispirazione occidentale. La sua ascesa venne osteggiata dagli oligarchi che, grazie alla complicità di Julija Tymošenko, fecero in modo di far cadere il suo governo nel 2001, appena due anni dopo l’inizio del mandato. La popolazione scese in piazza e raccolse quattro milioni di firme per convincere il parlamento a rivedere la propria decisione. Fu tutto inutile, ma l’energia e la vivacità della piazza sarebbero presto tornate protagoniste. Nel 2004 infatti Juščenko si candiderà a presidente. Contro di lui, Kučma tentò di imporre il proprio delfino, Victor Janukovyč, garante della continuità, espressione degli oligarchi del Donbass e degli interessi di Mosca. Durante la campagna elettorale, Juščenko sopravvisse a un avvelenamento da diossina ma sul suo volto restarono i segni de quella “operazione speciale” russa destinata a eliminarlo.

Malgrado lo svantaggio nei sondaggi, Janukovyč uscì vincitore dalle urne. Solo le vibranti proteste di piazza, conosciute come la Rivoluzione arancione, spinsero la Corte Suprema a rivedere i conteggi, denunciando infine gravi irregolarità e annullando i risultati. Le elezioni vennero ripetute portando alla vittoria di Juščenko.

Sono stato inviato a Kiev dall’allora Alto Rappresentante dell’UE, Javier Solana, durante i mesi cruciali della Rivoluzione Arancione e ho potuto vedere di persona l’emergere di una comunità politica disposta a lottare per la democrazia e l’integrazione europea in opposizione alla deriva autoritaria che il paese stava imboccando, in linea con quanto succedeva in Russia, dove Putin aveva iniziato a caratterizzare apertamente il regime come illiberale e repressivo.

Tutto questo fermento avveniva in un contesto di forte stagnazione economica. Agli effetti della crisi finanziaria globale si aggiungeva un fattore che aveva riflessi enormi nei delicati rapporti russo-ucraini: la forte dipendenza dal gas a basso costo proveniente dalla Russia e dalle “tasse di transito” addebitate per il gas russo diretto in Europa. Un collega ucraino che avevo conosciuto durante la Rivoluzione arancione mi scriveva nel 2010 esprimendo la delusione per le occasioni mancate. Poiché, e qui sta la prova che una certa maturità democratica in Ucraina era stata raggiunta, pur nel permanere di una forte conflittualità, il fallimento del piano di riforme tentate da Juščenko portò al ritorno al potere dello stesso Janukovyč alle elezioni del 2010.

“Tutto questo mentre il tempo passa”, scriveva. Aggiungendo però un altro aspetto, questo positivo: più passava il tempo, più l’identità dell’Ucraina si consolidava e sembrava ormai piena. “Perché cosa significa appartenere a una nazione? Come recita una vecchia canzone sovietica, dove inizia la madrepatria? Inizia con le immagini del primo libro che tua madre ti legge, poi con le note e le parole della prima canzone che tua madre ti canta, e poi con le voci degli amici del cortile accanto… Insomma, un sentimento nazionale ucraino, unito al senso di appartenenza all’Occidente e all’Europa è ormai consolidato, questo è un fatto innegabile”.

Della verità di quanto affermato dal mio amico mi resi conto tempo dopo, durante i fatti di EuroMajdan del 2013-14 e ancora di più in questi ultimi mesi, drammatici. L’Ucraina esiste, nonostante quello che dicono e scrivono Putin e il suo apparato di governo e propagandistico, perché il popolo ucraino esiste e si sente tale, come parte di una nazione indipendente e sovrana.

immagine Pixabay License

Chi è MIchael L. Giffoni

Michael L. Giffoni (New York, 1965), da diplomatico di carriera dal 1992 al 2014 ha ricoperto numerosi e delicati incarichi nazionali ed europei. Dopo aver trascorso gli anni ’90 in Bosnia e nel resto dell’ex-Jugoslavia in guerra, è stato Capo della Task-force per i Balcani dell’Alto Rappresentante per la Politica estera Ue, Javier Solana, poi per 5 anni primo Ambasciatore d’Italia in Kosovo (2008-2013) ed infine (2013-14) Capo Ufficio per il Nord Africa e la Transizione araba al Ministero degli Affari esteri.

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