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In Tagikistan alla ricerca dei “ritmi dei tempi perduti”: intervista ad Anisa Sabiri

Il Calvert Journal inaugura la seconda edizione del suo festival online dedicato al grande cinema dell’Europa orientale, dei Balcani e dell’Asia Centrale. La rivista londinese documenta da diversi anni le ultime novità della cultura e della creatività del cosiddetta macro-regione del “Nuovo Est”, con articoli di approfondimento, interviste, servizi fotografici e video-reportage. Dal 18 al 31 ottobre, l’evento proporrà 35 titoli, suddivisi in sette categorie: documentari, film d’animazione, lungometraggi di fiction, film degli studenti delle scuole di cinema, film sperimentali, cortometraggi e proiezioni speciali. I titoli saranno tutti disponibili per 48 ore sulla piattaforma Eventive.

East Journal ha intervistato cinque registi di cinque film che parteciperanno al festival. “Rhythms of Lost Time”, film di Anisa Sabiri, sarà disponibile a questo link il 30 e 31 ottobre.

Il film di Anisa Sabiri è un viaggio tra i villaggi remoti delle montagne tagike, per esplorarne e osservarne i canti e balli tradizionali, che rischiano di scomparire tra globalizzazione e repressione politica. Per ora però, i ritmi dei canti del maddoh continuano a scandire i momenti della vita delle persone, dalla nascita alla morte, e di intere comunità.

Anisa, che cosa ti ha portato a fare questo film? Cosa ti legava personalmente alla musica tradizionale del Tagikistan?

Conoscevo i canti tradizionali maddoh perché per sette anni ho lavorato in Tagikistan come guida turistica, per sostenere la mia carriera artistica. Ho sempre voluto trovare uno strumento per documentare e mostrare queste tradizioni. Mi è sempre sembrato terribile che stessero scomparendo, anche perché le trovavo significative anche a livello personale. Ho sempre percepito un loro potere misterioso, segreto, come uno spirito dei tempi antichi, e per questo ho  chiamato il film “Rhythms of Lost Times”. È qualcosa difficile da descrivere, e probabilmente è proprio per questo che queste tradizioni hanno un significato quasi trascendentale. Mi interessava anche esplorare la loro storia, e come si siano diffuse nel mondo. Sappiamo molto delle tradizioni indiane o turche, ad esempio, mentre mi sembrava che quelle tagike fossero andate dimenticate, anche se hanno creato le fondamenta per molte altre tradizioni euroasiatiche. Ho pensato che se nessuno avesse raccontato questa storia, queste tradizioni sarebbero semplicemente scomparse. Ci sono, ovviamente, libri sul tema, ma nessuna opera cinematografica. Quindi sono molto contenta di aver potuto fare questo film!

Un tema che viene trattato nel film è la storia delle continue repressione del maddoh, dei canti tradizionali. Nel film si parla delle repressioni dell’inizio dell’epoca sovietica, ma anche dell’epoca odierna. Puoi raccontare le ragioni per cui i canti tradizionali non piacciono al governo del Tagikistan di adesso?

Ci sono tre aspetti da considerare in questo senso: il primo è la globalizzazione, una sorta di “repressione soft” che viene dalle persone stesse, ad esempio dai giovani che pensano che queste tradizioni non siano interessanti per loro. Il secondo è la radicalizzazione dell’Islam, che porta il governo a cercare di reprimere queste tradizioni, anche se molte non sono propriamente musulmane. Il terzo è che il governo vuole controllare queste tradizioni dal punto di vista sociale. Una decina di anni fa, ad esempio, è stata promulgata una legge per semplificare le cerimonie tradizionali, con l’obiettivo di impedire alla popolazione di spendere molti soldi in matrimoni e funerali. La gente prima spendeva moltissimo per queste celebrazioni, magari indebidantosi. Anche se questa legge ha un obiettivo condivisibile, il governo non ha però considerato gli effetti secondari che avrebbe avuto. Ad esempio, molte persone che lavorano in questo ambito hanno perso il lavoro.

Riguardo a questo, come è stato ricevuto il film in Tagikistan?

Il film è stato ricevuto molto bene, nonostante fossi molto preoccupata! Il film parla di argomenti così sensibili, come i rituali, le tradizioni… Il Tagikistan è composto al 93% da montagne, e ogni villaggio, ogni provincia, ha le sue tradizioni, quindi ero preoccupata che la gente dicesse che non le avevamo rappresentate correttamente. Anche il tema della repressione è piuttosto sensibile, perché il Tagikistan non è esattamente uno stato democratico. Comunque abbiamo ricevuto un’ottima risposta, a Dushanbe abbiamo addirittura dovuto fare un secondo screening perché c’era troppa richiesta. Ero anche contenta perché per molti tagiki vedere il film è stato come viaggiare in un altro paese, soprattutto per i più giovani. Molti mi hanno detto che il film ha fatto venire loro voglia di viaggiare nel loro paese e imparare di più sulla propria cultura. Spero che dopo i festival internazionali potremo far vedere il film nei villaggi dove abbiamo girato!

Nel film viene raccontato anche il punto di vista di un uomo europeo appassionato di maddoh, che viaggia per il Tagikistan per ascoltare i canti tradizionali. Perché era importante per te includere il suo punto di vista?

Inizialmente, mi sembrava interessante far vedere che anche uno straniero potesse interessarsi a questa musica. Volevo mostrare che è qualcosa di universale. Capisco adesso che sembri un po’ colonialista, e penso che questo sia un tema interessante. Inizialmente mentre giravo il film e vivevo ancora in Tagikistan, ho pensato di mostrare queste tradizioni e girare il film tutto dal suo punto di vista, anche su suggerimento dei nostri sponsor. Poi mi sono trasferita a Londra per studiare alla London Film School e la mia prospettiva è cambiata. Durante la post-produzione ho cominciato a chiedermi che importanza avesse mostrare queste tradizioni dal punto di vista di uno straniero. Penso che dimostri veramente il nostro desiderio di ricevere l’approvazione di un “uomo bianco”. Anche per questo, alla fine ho deciso di non eliminare del tutto il suo punto di vista dal film, anche se non è l’unico o il principale.

L’importanza delle tradizioni mi sembra un obiettivo abbastanza esplicito del film. Ho una domanda un po’ provocatoria: perché è importante documentare e mostrare queste tradizioni?

Ho pensato molto a lungo a questa domanda. Continuavo a pensare: “Voglio che il mondo veda e sappia di queste tradizioni”, ma poi ho capito che ho voluto fare questo film perché era importante per me personalmente. Mi sono sempre interessate la filosofia antica e lo stile di vita comunitario, il potere della comunità, che è qualcosa molto socialista e commovente per me. C’è qualcosa di autentico nella comunità, nella protezione dell’individuo dalla solitudine. E credo che queste tradizioni abbiano questo ruolo. Certo, sono di orgine religiosa, e molte persone potrebbero dire: “Non sono religioso, perché queste tradizioni dovrebbero essere interessanti per me?” Penso ci sia un altro aspetto però: il valore di queste tradizioni non è solo nella religione, ma nella capacità di dare protezione dell’essere umano, attraverso la comunità e il contatto con la natura. Sentire lo scorrere del tempo e della vita attraverso di esse è qualcosa che possiamo imparare dal passato. Almeno, questo è quello che significano per me. Se qualcun altro troverà in queste tradizioni altre risposte, va bene. L’importante è che non vengano perdute.

Chi è Martina Bergamaschi

Laureata in Interdiscilplinary Research and Studies on Eastern Europe all'Università di Bologna, lavora nel campo della cooperazione internazionale, al momento nell'est dell'Ucraina. Per East Journal scrive soprattutto di Russia, dove ha vissuto per due anni tra Mosca, San Pietroburgo e Kirov.

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