UCRAINA: La guerra in pausa, la pace da evitare. Per ragioni di soldi

da MARIUPOL – In un momento in cui la guerra nell’Ucraina orientale sembra ristagnare, dopo il tentativo di avanzata dei separatisti nella zona di Maryinka, si può tentare di comprendere per quali ragioni la situazione sia apparentemente sospesa.

Come ogni guerra, quella del Donbass subisce e determina conseguenze prima di tutto economiche. L’Ucraina è un paese la cui economia è stata fortemente indebolita dalla situazione bellica, come auspicavano le forze economiche e politiche del Donbass che hanno perduto il potere centrale in seguito alla rivolta del Maidan, e che hanno perciò attuato la contromossa separatista insieme all’alleato russo. La guerra ha però portato massicce iniezioni di denaro dall’estero, sotto forma di aiuti umanitari e militari. La circolazione di questo denaro, non completamente controllabile, sembra stia consentendo cospicui arricchimenti, che verrebbero meno in caso di pace.

Una guerra in corso, nella maggioranza dei casi, rappresenta un ottimo business, e il caso ucraino non sembra sfuggire alla regola. Sono aumentate poi in modo esponenziale le armi da fuoco disponibili sul territorio, provenienti dalla zona delle ostilità, da cui un aumento elevato dei crimini commessi con armi, che ha già quasi eguagliato nel 2015 la cifra dell’intero 2014.

Nel territorio del Donbass controllato dalla DNR l’economia reale ha subito un’involuzione inquietante, dovuta al blocco completo del sistema bancario e alla presenza di armati dalla dubbia provenienza che profittano in ogni modo della propria autorità. E’ prospero nella regione il business della requisizione degli immobili, a danno di coloro che sono fuggiti o che comunque non risiedono stabilmente nel proprio appartamento. Il controllo della frontiera, poi, rappresenta una delle fonti non ufficiali di reddito più cospicue della situazione bellica. Ogni singolo posto di confine, grazie a mazzette, dazi non ufficiali sulle merci in transito, ruberie, sequestri arbitrari di auto, merci e denaro, consente ogni giorno di raccogliere cifre molto cospicue. Per non parlare ovviamente del transito di merci sospette, che consente ulteriori e imprecisabili guadagni.

Nella zona separatista, il calar del sole è il discrimine oltre il quale la vita si arresta: nessuno si azzarda a circolare nelle ore del buio, in cui i diritti dell’individuo tendono a dissolversi. In compenso, si possono vedere senza problemi anche in zone abitate magnifici esempi di tecnologia militare russa nuova di zecca: carri armati e piattaforme lanciamissili che i testimoni affermano essere freschi di fabbrica. Agli osservatori non è sfuggito il cospicuo riarmo della DNR nella primavera ed estate, forse per prevenire un possibile attacco estivo da parte delle truppe ucraine, come avvenuto lo scorso anno.

La situazione è parsa delicata soprattutto attorno a Mariupol, importante città industriale e portuale già bombardata ed assediata dai separatisti. E’ apparsa ultimamente una spiegazione molto plausibile del motivo che ha impedito sinora una conquista da parte della DNR e dei russi della città, soprattutto nel settembre scorso, quando la posizione era sguarnita e poteva essere presa con estrema facilità. Il porto di Mariupol è in questo momento l’unico sbocco sicuro da cui le merci prodotte dalle aziende dell’oligarca Akhmetov possono giungere in Europa; e si tratta di merci e materiali spesso provenienti dallo stesso Donbass, dove Akhmetov concentra il grosso dei suoi interessi e delle sue attività. Con il porto di Odessa fuori gioco, controllato dall’oligarca rivale e filoucraino Igor Kolomoiski, la sola possibilità per spedire merci in Europa è per Akhmetov il porto di Mariupol, in territorio ucraino. Qualora la città divenisse parte della DNR, cioè di uno stato fantasma non riconosciuto in occidente, il porto diverrebbe off-limits, non più utilizzabile. Per questo motivo dunque Mariupol è ancora Ucraina.

Di questa realtà dei fatti ha parlato anche, in un incontro ufficiale a Mosca, Aleksander Borodai, ex primo ministro della DNR, che ha spiegato ai suoi interlocutori il motivo reale della salvezza, temporanea, di Mariupol. Il ruolo di Akhmetov, così come quello dell’ex presidente Yanukovich e di tutto il sistema politico, economico e criminale del Donbass, che era riuscito ad impadronirsi del potere a Kiev con le elezioni del 2010, appare sempre centrale e preponderante nella regione, e bisognerà guardare in direzione di questi interessi economici, oltre che degli interessi geopolitici di Mosca, per comprendere il destino della guerra in corso e delle popolazioni che ne subiscono le conseguenze senza averla né decisa né condivisa.

Chi è Giovanni Catelli

Giovanni Catelli, cremonese, è scrittore e poeta, esperto di cultura e geopolitica dell’Europa orientale. Suoi racconti sono apparsi in numerose testate e riviste, tra cui il Corriere della Sera, la Nouvelle Revue Française, Nazione Indiana, L’Indice dei Libri. Ha pubblicato In fondo alla notte, Partenze, Geografie, Lontananze, Treni, Diorama dell'Est, Camus deve morire, Il vizio del vuoto, Parigi e un padre (candidato al Premio Strega 2021). Geografie e Camus deve morire (con prefazione di Paul Auster) sono stati tradotti in varie lingue. Collabora con Panorama e dirige Café Golem, la pagina di cultura di East Journal. Da più di vent'anni segue gli eventi letterari, storici e politici dell'Europa orientale, e viaggia come corrispondente nei paesi dell'antico blocco sovietico.

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5 commenti

  1. Che dire dei referundum, dove la popolazione e’ accorsa in massa a votare per l’indipendenza dal governo centrale che prese il potere con un colpo di mano armato? Che dire della stessa gente del Dombass che a mani nude andava contro i carri armati mandati da Kiev a sparare contro i propri cittadini? Se la questione e’ soprattutto economica, certamente il blocco del pagamento delle pensioni e di tutti i sussidi alla popolazione del Dombass da parte del governo centrale e’ un atto che sa di barbarie. E lo e’ anche se il silenzio dell’occidente vuole occultare tali notizie, come e’ stato fatto in questo articolo.

    • Caro Paolo/Claudio, del perché il referendum in Donbass sia stato una farsa abbiamo scritto qui: https://www.eastjournal.net/ucraina-il-referendum-nellest-del-paese-in-attesa-di-risposte-da-kiev/42468

      • Definire farsa quei referundum non solo è ingiusto, ma soprattutto irrispettoso in riferimento alla grande affluenza di gente, anche in zone che erano toccate dai combattimenti, quindi con il concreto pericolo di lasciarci la pelle mettendosi in fila ai seggi. Dal punto di vista del diritto erano senz’altro illegali, ma questo non toglie che abbiano espresso una chiara volontà del popolo della regione, un orientamento contrario alla linea politica del dopo Maidan e favorevole al mantenimento di stretti legami con la Russia. Ciò è stato clamorosamente confermato nelle elezioni politiche di ottobre dello scorso anno (avventatamente indette dal presidente Poroshenko): nelle regioni del sud-est dove si è votato (quindi non Dombass nè Crimea) hanno votato al massimo il 20% degli aventi diritto. Una diserzione in massa delle urne (e del parlamento di Kiev… ) e una chiara indicazione della volontà di quella parte del popolo dell’Ucraina che per ragioni culturali, storiche, linguistiche ed anche familiari si sente vicino alla Russia piuttosto che al programma di occidentalizzazione forzata che gli Usa/Ue gli vogliono imporre. D’altra parte le immagini di civili, uomini e donne, che a mani nude si mettono di fronte a carri armati per fermarli parlano da se. Se per persone come lei questi atti, che sanno di eroismo, hanno valore solo se avvengono a parti invertite questo è un vostro problema.

  2. Alessandro Cerchi

    In un pregresso articolo poneste l’accento (come già fecero gli analisti di “Foreign Affairs” in tempi non sospetti, ma la loro è una posizione priviliegiata) su un aspetto fondamentale e poco rivelato a causa dell’insopportabile brusio della propaganda: del Donbass/Novorossia, in senso strategico, non interessa più a nessuno, né a Kiev né a Mosca.
    La scuola politologica e militare russa risente ancora pesantemente dell’attendismo, e punta a conquiste tattiche, di breve respiro, forse nella convinzione tipicamente sovietica che l’insieme delle piccole vittorie, alla lunga, facciano la differenza e prospettino da sé un guadagno strategico.
    La scuola statunitense, invece – al netto dell’impressionante quantità di errori madornali compiuti nel tempo, dal Vietnam all’Iraq – è pragmatista e machiavelliana, e insiste nel colpire i punti deboli per puntellare il rivale, nella convinzione che la vittoria strategica non sia un accumulo di vittorie tattiche, bensì il risultato di un aggressione mirata e specifica, fosse anche nei lati meno esposti ed evidenti.
    Nel dettaglio: le eminenze grigie di Mosca paiono confidare nell’ipotesi che il Maidan sia reversibile, e che utilizzare il Donbass come cavallo di Troia sia la via meno dispendiosa per impedire l’europeizzazione degli ex “fratelli”. Il colpo inatteso per Mosca (di scuola tipicamente yankee…) dev’essere stato il blocco economico degli Oblast: Minsk II non ha certificato tanto la capitolazione militare dell’Ucraina, quanto la volontà di Mosca di veicolare la propria influenza nella regione “politicamente”, prospettando un futuro prossimo in cui il governo centrale ucraino fosse schiacciato dalle decisioni politiche eterodirette delle regioni ribelli; “Novorossia” è divenuto il marchio ideologico per attirare combattenti nella regione, ma Mosca ha chiaramente fatto capire che non annetterà mai Donetsk e Luhansk come ha fatto come la Crimea (russofoni di serie “A” e di serie “B”?), né ha intenzione di sostenerli economicamente come fa con Abcasia, Ossetia, Trasnistria e Cecenia.
    Dal canto loro, al di là le vuote promesse di una “riconquista” e di un patriottismo farlocco, Kiev non sembra assolutamente intenzionata a riprendersi le regioni manu miltari: tanto per l’ovvia difficoltà di affrontare l’esercito fantasma russo, quanto perché esse sono oramai economicamente fallite, rappresentano il feudo del clan oligarchico rivale dell’attuale dirigenza e impediranno l’occidentalizzazione del paese. Credo sia solo questione di tempo perché Kiev, fatta propria la scuola statunitense del colpire l’anello debole della catena anziché tentare di spezzarli uno ad uno come hanno sempre fatto i russi, abbandonerà definitivamente Luhansk e Donetsk al loro destino, formalizzandone la separazione in maniera ben più netta di quanto qualsiasi accordo prevedesse. Nel perdere due oblast e la Crimea Kiev ne guadagnerà sulla lunga distanza, e la dirigenza sovietica si ritroverà a dover fare i conti con gli ennesimi stati fantasma attorno ai propri confini. Se Kadyrov dovesse cadere e il Caucaso riesplodere, la “sindrome dell’accerchiamento” moscovita finirà per produrre più danni di quanti ne abbia pensati di evitare. Discorsi accademici che, purtroppo, viaggiano sulle teste di oltre 9000 morti e un milione di sfollati.

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