BALCANI: Perché il tribunale dell’Aja ha fallito

BELGRADO – L’immagine del generale croato di Bosnia Slobodan Praljak che proclama la propria innocenza davanti alla corte prima di ingerire una fiala di veleno che poco dopo gli provocherà la morte è carica di surrealismo, e allo stesso tempo testimonia il goffo fallimento del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia.

Se ci trovassimo sul set di un film di Emir Kusturica, questa scena, forse, la troveremmo fin troppo surreale o per lo meno commenteremmo che non è possibile, per quanto questo sia solo un film, che uno dei principali responsabili dei crimini commessi in Erzegovina possa introdurre nell’aula dell’udienza una dose di veleno.

Ma al netto della fine spettacolare della vita di Praljak, questo non è un film. E’ solo l’ultimo atto di un tribunale che, probabilmente, a sua volta non ne poteva più di far da arbitro a questi popoli che ogni cinquant’anni vengono alle mani.

Ma non sono i popoli a essere giudicati. O sì?

Solo poche settimane prima, i giudici dell’Aja avevano emesso il verdetto di primo grado che condanna all’ergastolo il generale dei serbi di Bosnia Ratko Mladic, il quale aveva cercato di non deludere le attese alzandosi in piedi e dando dei bugiardi ai giudici della corte, esaltando le orde di nazionalisti serbi che in lui – se qualcuno lo sa, ci spieghi il perché – vedono la reincarnazione di eroi popolari nazionali.

Ma non c’è partita, i croati in questo frangente portano a casa il punto: d’altronde, vuoi mettere un generale che si avvelena in diretta TV alla Socrate, contro un vecchio che urla ingiurie? Le candeline e le scritte in onore “all’eroe della patria” in piazza Ban Jelačić a Zagabria testimoniano questa vittoria croata.

Eh sì, perché quello del tribunale dell’Aja è stato soprattutto un confronto tra nazioni – simili a quello tra le nazionali, considerato il modo in cui i rispettivi popoli fanno il tifo per il proprio “eroe”, a prescindere da quel che riportano i testimoni, confermano le prove e afferma la corte.

Eppure, dopo la sentenza di ergastolo a Mladic, lo stesso procuratore del tribunale Serge Brammertz ha sentito la necessità di spiegare che la sentenza riguarda solo una persona e non tutto il popolo serbo. Ecco, probabilmente qui risiede la chiave del fallimento del tribunale: non essere stato in grado di dimostrare nei fatti che la giustizia non ha bandiere, che le sentenze riguardano singole fattispecie e non interi popoli.

Ovvero, in questi venticinque anni, il processo di identificazione nazionale con un criminale è diventato un automatismo che ha nutrito i nazionalisti balcanici, che, a seconda dell’etnia dell’accusato, o hanno chiesto giustizia o hanno accusato la corte di politicizzazione.

Poco prima di andare in pensione, il tribunale tira le somme del proprio lavoro e guarda ai risultati raggiunti in questi venticinque anni: degli 89 condannati, 62 sono serbi, ovvero il 70 percento. Un po’ troppo per aspettarsi che il popolo serbo stesso non si senta automaticamente responsabile per tutto quello che è successo nelle guerre jugoslave; un numero comunque sufficiente per giustificare perché in molti si lascino ammaliare dalle teorie del complotto internazionale contro la Serbia.

“Il tribunale ha reso giustizia alle vittime”

Questa frase sembrerebbe rispondere alla domanda “qual è stata la funzione del tribunale?”, oppure, molto più facilmente, con questa frase ci si scrolla di dosso l’angoscia che provoca l’accusa di non aver contribuito alla riconciliazione nella regione balcanica.

E’ vero, i tribunali, per definizione, non hanno questa funzione, ma le sentenze che emettono hanno conseguenze di carattere politico e sociale. E queste, purtroppo, non hanno fatto che contribuire ad alimentare la diffusione del cliché tra coloro che i Balcani li hanno visti sì e no una volta, in vacanza: “eh ma i serbi hanno più colpe…i serbi sono cattivi”.

Di fatto, rendere giustizia alle vittime è il primo passo per la riconciliazione. Ma ci sono vittime, quelle serbe, che, dimenticate dal tribunale dell’Aja, sono diventate la carta vincente dei nazionalisti serbi, divenendone ostaggio, ovvero la dimostrazione di come il tribunale sia politicizzato.

Ecco, in questo ha fallito il tribunale: nel non concedere a tutte vittime lo stesso stesso riconoscimento. Se infatti, come accadde con il processo di Norimberga per i crimini nazisti, le sentenze servono a ricostruire la storia, cosa racconteranno i duecentomila serbi cacciati da Knin? Che dopo secoli di convivenza non gli andava più bene il clima della Dalmazia? O che all’ultimo grado di giudizio i giudici hanno avuto un ripensamento e di fatto dato ragione a coloro che sulle strade croate scrivevano che Gotovina è un eroe?

Perché l’eroismo dei Praljak e dei Mladić non ha valore solo quando è rivendicato da partiti nazionalisti, bensì quando si guarda alla giustizia come compensazione storica.

Dopo venticinque anni in cui non ne poteva più – tanto da non perquisire un imputato prima dell’udienza – il tribunale ha a sua volta peccato di compensazione. Giocando il ruolo della comunità internazionale che si sentiva in qualche modo responsabile per le guerre in Croazia e Bosnia, ha svolto il compitino, lasciando che fossero i tre popoli a costruire la riconciliazione sulla base delle sentenze.

Il fallimento del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia sta proprio nel non aver contribuito a rendere giustizia a tutte le vittime, lasciando che quelle ignorate venissero poi politicamente manipolate dai più beceri nazionalisti – esattamente come accadde poco prima del collasso jugoslavo con le vittime della Seconda Guerra Mondiale – dopo la quale la riconciliazione tra i popoli jugoslavi sembrava ben più difficile che oggi.

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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