Milošević

La fine dell’era Milosevic, rivoluzione democratica o colpo di stato?

Il 5 ottobre 2000 corrispose alla fine del potere, durato oltre un decennio, di Slobodan Milošević, allora Presidente della repubblica federale di Jugoslavia. Tuttavia, quali furono le circostanze storiche? Cosa avvenne a Belgrado in quei cruciali momenti? A distanza di sedici anni, come viene ricordato tale evento storico dall’élite politica del paese? Senza negare la complessità dei fatti del 5 ottobre 2000, che emerge peraltro nella stessa terminologia adottata, una “rivoluzione” per alcuni, un “colpo di stato” per altri, si tenterà di ricostruire alcuni dei passaggi più significativi di quegli eventi, e di mostrare le difficoltà, nella Serbia odierna, nell’attribuire un valore definitivo a quello che è stato un momento di cesura nella storia serba ed europea.

Il contesto storico

La Serbia nel 2000 era un paese esangue, perché sottoposta per circa un decennio all’embargo delle Nazioni Unite volto a punire il ruolo di Belgrado nel fomentare la guerra nella regione. In Serbia vennero inoltre accolte centinaia di migliaia di profughi provenienti da altri territori dell’ex Jugoslavia (prevalentemente serbi in fuga dai conflitti). L’anno precedente il paese venne duramente colpito dai bombardamenti della NATO. Era, inoltre, un paese logorato dalla corruzione – alimentata in maniera esponenziale dai partiti al potere – e dalla criminalità, nonché prostrato da un decennio di governo retto da ex comunisti che, al momento opportuno, seppero riciclarsi come i più accaniti difensori della nazione. Una classe politica, peraltro, che dimostrò, tra l’altro, una scarsa propensione verso il pluralismo nel controllo dei media pubblici, un rapporto paternalistico nei confronti degli alleati politici, e una attribuzione di eccessivi poteri e poltrone alla JUL, il partito della moglie di Milošević, la sociologa Mira Marković. In altri termini, la Serbia si configurò come una democrazia formale ed elettorale (salvo i regolari brogli), dove però v’era una sistematica carenza di cultura democratica e rispetto delle istituzioni. L’opposizione politica era litigiosa, disunita, a volte connivente con il regime stesso. Un paese, infine, dove gli oppositori considerati pericolosi per la stabilità del regime, venivano intimiditi o brutalmente freddati.

In quel drammatico contesto, la comunità internazionale, dopo un decennio di rapporti burrascosi, spesso sfociati in ricatti e cinici compromessi, appoggiò l’opposizione nel formare un unico fronte nella speranza di rimuovere Milošević. Si formò così la DOS (Opposizione democratica della Serbia, composta da ben diciotto partiti, molto diversi tra loro), con a capo il costituzionalista conservatore (e vecchio oppositore del regime titoista) Vojislav Koštunica. Inoltre, pur non facendo parte della DOS, si distinse, nell’opposizione al regime, il controverso movimento giovanile Otpor (resistenza). Vuk Drašković (leader del partito Movimento del rinnovamento serbo – SPO), storica e controversa figura dell’opposizione serba, decise di non aggregarsi alla DOS.

Dalle elezioni anticipate alle dimissioni di Milošević

Milošević, sebbene il suo mandato di presidente federale sarebbe scaduto l’anno successivo, ossia nel 2001, decise di anticipare le elezioni, probabilmente sperando di sbaragliare, ancora una volta, un’opposizione ritenuta debole. Inoltre, nel mese di luglio, vennero ratificati degli emendamenti costituzionali, ritenuti illegittimi dall’opposizione, che avrebbero concesso a Milošević di poter ricoprire il ruolo di presidente federale per ulteriori mandati, rispetto a quanto previsto dalla costituzione del 1992. Una delle principali novità degli emendamenti era costituita dal fatto che il presidente sarebbe stato eletto in maniera diretta dai cittadini, e non più dal parlamento federale (forse pensando che in questo modo Koštunica, poco noto agli elettori, sarebbe stato penalizzato). Infine, lo stato federale avrebbe accentrato ulteriormente i propri poteri, a svantaggio ovviamente del Montenegro, e ampliando così il dissidio del Presidente montenegrino Milo Đukanović nei confronti di Belgrado. Gli albanesi del Kosovo, dal canto loro, proseguirono la loro strategia (iniziata nel 1990) di boicottaggio del voto.

Le elezioni, per la presidenza della federazione (a doppio turno), per il parlamento federale, e per le comunali nella sola Serbia, vennero fissate per il 24 settembre 2000. La DOS, al termine delle votazioni, sostenne che il proprio candidato fosse in netto vantaggio. Tuttavia, il 26 settembre la commissione elettorale diffuse i dati preliminari del voto (confermati due giorni dopo), asserendo che, sebbene Koštunica avesse ricevuto più voti (48%) rispetto a Milošević (40%), non aveva ottenuto il 50% necessario per potersi proclamare vincitore. L’opposizione denunciò la presenza di brogli elettorali e non riconobbe l’esito del voto, e si rifiutò di partecipare al secondo turno. Inoltre, invitò i cittadini alla disobbedienza civile, e a scioperare in forma di protesta, cosa che puntualmente avvenne in varie città del paese. Non occorre dimenticare, che troppo spesso la partecipazione della base alle proteste, dagli studenti alla classe operaia, è stata messa in ombra da analisi eccessivamente schiacciate sul ruolo delle forze esterne al paese nel porre fine al regime.

Il 2 ottobre, Milošević si rivolse alla nazione, paventando con toni drammatici le sciagure che avrebbero colpito il paese in caso di vittoria dell’opposizione. In particolare, il Presidente avvertì i propri concittadini che forze straniere miravano, grazie alla DOS, a soggiogare la Serbia per ottenere il pieno dominio sulla penisola balcanica. Inoltre, la Serbia si sarebbe impoverita, avrebbe perso la propria identità, nonché la propria libertà. Le aziende pubbliche sarebbero state privatizzate a vantaggio degli stranieri, mentre il processo di distruzione della Jugoslavia sarebbe continuato, il Kosovo sarebbe divenuto indipendente, e il Montenegro sarebbe caduto nelle mani della mafia. Tali esternazioni, sostanzialmente, corrispondono con il pensiero di Milošević negli anni immediatamente precedenti, così come è riscontrabile in alcuni documenti d’archivio e nelle intercettazioni telefoniche. Infatti, lo si può evincere, ad esempio, in una conversazione avvenuta il primo gennaio 1997 fra Milošević (che ricopriva la carica di presidente della Serbia) con l’allora Ministro degli esteri jugoslavo Milan Milutinović. Il Presidente serbo disse al Ministro:

…qui si tratta del nostro stato, Milan! Loro [gli americani] vorrebbero non solamente cambiare qui [in Serbia] il sistema, non il sistema [,] bensì cambiare, questo, ci vogliono, fratello, distruggere lo stato! Essi [gli americani] vorrebbero, Milan, trasformarci [i serbi] come i Curdi d’Europa [ossia privi di stato-nazione], vogliono fotterci, laggiù in Bosnia, fotterci qui in Kosovo, nel Sangiaccato, se possibile staccare la Vojvodina, così che diverremmo Curdi, i Serbi diverrebbero Curdi, questo è ciò che vogliono. Eh, non lo faranno [imprecazione]!

Significativamente, per Milošević, ogni attacco alla sua persona, al suo partito, ed al suo governo (in senso lato), dovevano intendersi come un attacco allo stato, e al popolo serbo in quanto comunità. Tale aspetto emerse con chiarezza nel suo discorso televisivo del 2 ottobre 2000, andato in onda alle 19:30, quando disse

Forse dovrebbe essere chiaro a tutti che essi [i paesi della NATO, assieme alla DOS] non attaccano la Serbia a causa di Milošević bensì attaccano Milošević per via della Serbia.

A nulla servì la decisione del 4 ottobre della corte costituzionale federale, ossia di annullare il voto e di ripeterlo nuovamente. La DOS, tutt’altro che appagata, domandò che la commissione elettorale sancisse, senza indugio, la vittoria di Koštunica, entro le ore 15 del 5 ottobre. Così, in segno di protesta, il 5 ottobre, centinaia di migliaia di persone si diressero verso il parlamento federale, e lo occuparono. La stessa sorte toccò alla sede della TV di stato. La sera stessa, Koštunica, che aveva già arringato la folla nel tardo pomeriggio, rilasciò un discorso alla televisione. Il giorno successivo, Milošević riconobbe la vittoria del suo avversario. Anche il Presidente della Russia, Vladimir Putin, evitò di sostenere Milošević. Del resto il Presidente serbo rifiutò una mediazione russa nel risolvere la profonda crisi politica del paese.

A fianco dei manifestanti, si schierarono sia la chiesa ortodossa serba, sia intellettuali del calibro di Dobrica Ćosić. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuti attendere, la polizia e l’esercito non intervennero in difesa del presidente. Forse, per dirla con il filosofo Svetozar Stojanović, le sanzioni della comunità internazionale esplicitamente dirette verso alcuni esponenti del regime, sommate alla messa in stato d’accusa da parte del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, di vari alti rappresentanti dello stato, contribuirono alla resa di Milošević, al suo abbandono, per timore e opportunismo, da parte dell’élite del paese. Tuttavia, non vi furono solo intellettuali, membri del clero, studenti e operai, a supportare le manifestazioni contro il vecchio presidente. Anche la mafia locale e gli hooligan sostennero, nelle strade, la presa del potere dello schieramento democratico. Inoltre, è bene sottolineare che buona parte dei leader della protesta, e di coloro che scesero nelle piazze contro Milošević, erano essi stessi aderenti all’ideologia nazionalista serba. Con ogni probabilità, una parte dei manifestanti, protestava contro Milošević non tanto per esser stati trascinati in guerre fratricide, quanto piuttosto per averle perse.

Si concluse così, nelle piazze della capitale, la parabola politica del più discusso (probabilmente secondo solo al Maresciallo Tito in termini di notorietà) uomo di potere dell’ex Jugoslavia. Milošević, all’inizio della sua carriera politica, venne imposto come candidato unico alle elezioni per ricoprire la posizione di Presidente della presidenza della Lega dei comunisti di Serbia dal suo mentore Ivan Stambolić nel 1986, e consolidò il proprio potere politico tramite una serie interminabile di purghe interne al partito nel 1987 – e negli anni immediatamente successivi (colpendo lo stesso Stambolić). Giunse all’apice del consenso popolare durante i moti di piazza (da lui pienamente supportati) avvenuti tra il 1988 e il 1989 (che rovesciarono i legittimi rappresentanti delle due Province della Serbia, e anche del Montenegro). Era il periodo in cui Milošević non aveva alcun timore a palesare il proprio disprezzo verso le regole, come, ad esempio, avvenne durante la XIV seduta del Comitato centrale della Lega dei comunisti della Jugoslavia (nel gennaio 1989), in risposta alle critiche del presidente della Presidenza della Lega dei comunisti della Slovenia, Milan Kučan. Il leader serbo sostenne che la soluzione della crisi jugoslava

…non la porteranno le procedure con le loro piccole o grandi trappole [bensì vi si giungerà] istituzionalmente oppure extra-istituzionalmente, rispettando lo statuto oppure per vie extrastatutarie, nelle strade oppure all’interno [delle istituzioni], populisticamente oppure elitariamente, argomentatamente oppure in maniera non argomentata.

Nonostante la vittoria elettorale del suo partito nel dicembre del 1990, iniziò a temere le masse e ad avviare un processo di smobilitazione, come si evinse dagli eventi del 9 marzo 1991. Sebbene egli percepisse i partiti dell’opposizione come delle quinte colonne, dei traditori della patria che volevano distruggere il paese, il 6 ottobre 2000 ammise pubblicamente la vittoria di Koštunica. Tuttavia, questo riconoscimento formale da parte del leader, non impedì ai suoi sostenitori di definire gli eventi del 5 ottobre come un colpo di stato. Oppure di sostenere, anche a distanza di tempo, che in realtà Koštunica, al primo turno, non ottenne la maggioranza dei voti, ma oggi non sarebbe dimostrabile perché le schede vennero distrutte.

I vincitori di allora, gli autori della cosiddetta rivoluzione democratica, inizialmente rappresentarono il simbolo della speranza di un futuro migliore, di un cambiamento radicale. Forse, il simbolo maggiore delle speranze infrante, fu uno dei leader chiave della DOS, il filosofo Zoran Đinđić (che intitolò, significativamente, un suo articolo, pubblicato nel 2001, con il seguente titolo: “Adrenalina per i cambiamenti”), ma la sua azione riformatrice venne bloccata nel 2003, quando venne assassinato durante il suo incarico di primo ministro della Serbia.

La memoria

Con il passare del tempo, il ricordo e la memoria del 5 ottobre, si stanno gradualmente affievolendo. I giovani apparentemente non sono a conoscenza di quegli eventi storici, e si dimostrano scarsamente interessati al tema. Coloro che invece ricordano perché li hanno vissuti, sono amareggiati e delusi rispetto ai loro sogni e alle loro grandi attese, complice la transizione apparentemente infinita del paese. La DOS, e i partiti ad essa affiliati sono scomparsi o comunque sono da anni ai margini del potere politico, sebbene non rinuncino a rivendicare i valori di quel profondo cambiamento, e in particolare la fine di un ciclo di guerre, e la costruzione di istituzioni democratiche nel paese.

Diversa è invece la posizione di coloro che nel 2000 sostennero Milošević. Come titolava il popolare quotidiano serbo Blic esattamente un anno fa, “i vincitori e i perdenti” del 5 ottobre 2000, “si sono scambiati il posto”. Infatti, mentre la DOS e i suoi eredi, elettoralmente, si sgretolavano, a partire dal 2008, avvennero importanti mutamenti nel panorama politico serbo. Gli sconfitti della rivoluzione tornarono, gradualmente, al potere.

Il Partito socialista serbo (il partito fondato e guidato da Milošević, dal 1990 sino al suo decesso nel 2006), il cui leader è, dal 2006, Ivica Dačić, ritornò al governo, in coalizione con il DS (Partito democratico – nel 2000 uno dei partiti principali della DOS). La svolta europeista dei socialisti, e l’alleanza con gli ex rivali, che solamente otto anni prima si trovavano sui fronti opposti della rivoluzione d’ottobre serba, ha condotto a una ondivaga evoluzione interpretativa della storia recente.

Tre anni or sono, in occasione del tredicesimo anniversario della caduta di Milošević, Ivica Dačić disse “grazie per averci sconfitti nel 2000”, dimostrandosi (apparentemente) pentito degli errori commessi dal regime negli anni ’90. Considerando che Dačić nel 2000 era il portavoce del partito socialista (incarico ricoperto dal 1992), nonché deputato nel parlamento federale, si trattava indubbiamente di un’affermazione degna di nota. Tuttavia, nel corso degli ultimi mesi, la netta autocritica dei socialisti verso il regime, si sta affievolendo.

Uno dei primi segnali al riguardo, fu una dichiarazione di Ivica Dačić, in occasione del decimo anniversario della morte di Milošević (marzo 2016), in cui evidenziò, anche, quanto di buono l’ex leader aveva fatto e lasciato in eredità alla Serbia, ossia gli Accordi di Dayton (ovvero la Republika Srpska), e la risoluzione 1244 delle Nazioni Unite (che consente a Belgrado di mantenere la propria sovranità formale sul Kosovo nelle sedi internazionali). Successivamente, nel mese di luglio, Dačić paragonò gli eventi del 5 ottobre 2000 al tentato golpe in Turchia a scapito di Erdoğan, condannando i tentativi di ottenere il potere attraverso l’uso della forza, aggiungendo che quanto avvenne a Belgrado “non portò nulla di buono al popolo serbo”. Il pentimento dunque ha rapidamente ceduto il passo al risentimento.

Inoltre, lo scorso agosto, il presidente onorario del partito socialista, Milutin Mrkonjić, ha affermato che nella capitale dovrebbe essere eretto un monumento in onore di Milošević, idea che è stata supportata anche dallo stesso Dačić. Egli, infatti, nei giorni precedenti, aveva esternato una improbabile ricostruzione secondo cui il tribunale dell’Aja avrebbe implicitamente riconosciuto l’innocenza di Milošević e della Serbia, e conseguentemente assolto questi ultimi dall’accusa di crimini di guerra e genocidio durante il conflitto in Bosnia ed Erzegovina. Tale interpretazione del leader dei socialisti serbi è stata prontamente smentita da vari osservatori, tuttavia il processo di revisionismo storico e di riabilitazione nei confronti di Milošević e del suo regime si sta avviando verso una nuova dimensione, legata anche alle tensioni nel contesto internazionale. In Serbia, vari esponenti politici, e non solo, sostengono che tale revisionismo sia in realtà il frutto della volontà di alcuni ex sodali di Milošević, quali ad esempio Ivica Dačić, oppure Aleksandar Vulin, che oggi ricoprono importanti incarichi nel governo, di voler riabilitare il vecchio regime con l’intento, non dichiarato, di voler riabilitare il loro stesso passato, e sollevarsi dalle proprie responsabilità.

La replica di Dačić a tali accuse non si è fatta attendere, smentendo ogni intenzione di voler riabilitare il suo predecessore alla guida del partito. Ad ogni buon conto, i socialisti serbi e il loro leader, non sono ovviamente gli unici ad avere un rapporto interessato nei confronti del recente passato e degli eventi legati al 5 ottobre 2000. L’attuale presidente del governo, Aleksandar Vučić (protagonista di un ardito trasformismo politico, dovuto alla creazione di un nuovo partito, frutto della scissione dai radicali nel 2008), in carica dal 2014, all’epoca era il ministro dell’informazione della Serbia (in quanto esponente del Partito radicale serbo, il cui leader era, e resta a tutt’oggi, Vojislav Šešelj), e venne additato per la sua implacabile e severa opera di censore nei confronti dei media critici verso il regime. Il premier serbo, in occasione del 16° anniversario, ha valutato positivamente l’uscita del paese dall’isolamento internazionale, tuttavia ha condannato “i saccheggi e la distruzione”, negli anni successivi al 2000, di quanto è stato realizzato dalle generazioni precedenti. Ha inoltre biasimato gli episodi di violenza che vennero commessi dai manifestanti, soprattutto verso i giornalisti e i redattori (perché fedeli al regime, e ritenuti esecutori delle linee editoriali emanate dal suo ministero).

Più in generale, si può affermare che i commenti del mondo della politica, in occasione del sedicesimo anniversario, non hanno avuto un deciso impatto nel dibattito pubblico e nei mezzi di comunicazione, anzi, sono passati decisamente in sordina. La Presidente del parlamento serbo, Maja Gojković (SNS, il partito del premier), ha interrotto il tentativo, da parte di un deputato del DS (Partito democratico), di parlare del 5 ottobre, sostenendo che “semplicemente non ci interessa”. Il Ministro del lavoro Vulin (Pokret socijalista – Movimento dei socialisti – nonché ex membro del Partito socialista e della JUL) ha affermato che la lotta che il governo sta conducendo per una “Serbia sovrana”, “militarmente neutrale” e contraria alle “privatizzazioni predatorie”, non ha nulla a che vedere con gli eventi del 5 ottobre. Vulin attribuisce dunque una connotazione negativa a quanto avvenuto durante lo scorso decennio. Sulla stessa linea del Ministro del lavoro si pone anche Đorđe Milićević (Partito socialista), che punta il dito contro lo smantellamento della fabbriche e la crescita esponenziale della disoccupazione, causati dalle politiche della DOS. Anche Milićević ringrazia la DOS per averli sconfitti nel 2000, come fece tre anni fa lo stesso Dačić, leader del suo partito, però questa volta con una sostanziale differenza, perché in questa occasione il tono è sarcastico. Infatti, per Milićević, la presa del potere da parte della DOS, avrebbe mostrato il vero volto dei democratici, e avrebbe concesso ai socialisti l’opportunità di riformarsi.

Come spesso accade per gli episodi storici più traumatici e controversi, il ruolo del 5 ottobre 2000, rivoluzione o colpo di stato che fosse, non ha ancora trovato una posizione chiara e consolidata nello spazio della memoria pubblica in Serbia. Piuttosto, ciò che traspare, è l’oscillazione tra l’oblio e la plasticità della memoria stessa, che plasma il passato a seconda delle necessità del presente. Ma, al di là delle speculazioni storiografiche o filosofiche, è indubbio che il cambio di regime abbia portato quantomeno maggiore stabilità nella regione (nonostante alcune debite eccezioni, come ad esempio nel caso della Macedonia nel 2001, piuttosto che in Kosovo nel 2004). Sarà compito degli storici, in futuro, sulla base delle fonti disponibili, delineare con maggior cura e dettaglio il significato della caduta di Milošević, sebbene sia evidente che sedici anni or sono, è terminato un ciclo storico profondamente drammatico per le popolazioni ex jugoslave, e sia avvenuta una lacerazione o, perlomeno, una discontinuità all’interno delle istituzioni politiche della Serbia.

Chi è Christian Costamagna

Christian Costamagna, classe 1979, ha insegnato presso l'Università del Piemonte orientale nell'anno accademico 2014-2015 (corso di Storia contemporanea e dell’Europa Orientale) dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Storiche. Nella tesi di dottorato si è occupato dell’ascesa al potere di Slobodan Milosevic nella seconda metà degli anni ’80. Ha svolto ricerche d’archivio a Belgrado e Lubiana. I suoi articoli sono apparsi su East Journal, Geopolitical Review. Geopolitica – Rivista dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, Mente Politica, European Western Balkans, e sul “LSE blog about South Eastern Europe”. Costamagna è consulting analyst per Wikistrat.

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