TURCHIA: A un anno da Gezi. Una società polarizzata?

Ad un anno esatto dal clamoroso scoppio delle manifestazioni di massa di piazza Taksim, a prima vista la Turchia non sembra un paese molto cambiato. Erdoğan – legittimato dal trionfo dell’AKP alle elezioni amministrative del 30 marzo – è ancora saldamente al potere, e la sua corsa verso la presidenza della Repubblica continua inarrestabile. Anche la politica estera turca pare nella stessa condizione di un anno fa, con la crisi siriana in una situazione di stallo preoccupante ma stabile, mentre l’eterno gioco delle parti con l’Unione Europea continua per inerzia sul consueto binario morto.

Eppure, negli ultimi dodici mesi, la Turchia è stata teatro di una successione di eventi clamorosi, tali da renderne difficile un riassunto. Le proteste di Gezi, presto trasformatesi in un fenomeno su scala nazionale che qualcuno (esagerando, ma non troppo) si è spinto a definire “rivolta”, sono state solo il preambolo di un anno estremamente difficile e complesso, e che non può essere di certo liquidato con l’affermazione elettorale dell’AKP.

Al di là degli scontri di piazza, l’evento più importante è stato senz’altro il palesarsi dell’inimicizia tra il premier turco e la confraternita Hizmet di Fethullah Gülen. Conseguenza più o meno diretta dello scontro tra i due vecchi alleati, è stato lo scoppio di un grande scandalo relativo a corruzione e tangenti che ha coinvolto il partito di governo nel mese di dicembre. I media vicini all’AKP hanno avuto gioco facile nel presentare le inchieste come il frutto di un complotto della magistratura politicizzata legata al movimento di Gülen, ma le intercettazioni pubblicate alla fine di febbraio sembrano invece dimostrare come la corruzione sia un fenomeno reale e di vaste proporzioni, e la famiglia del premier ne sia direttamente coinvolta.

Al doppio pericolo proveniente dalle manifestazioni di piazza ormai endemiche e dallo scontro con la magistratura gülenista, Erdoğan ha risposto proseguendo sulla strada verso un crescente autoritarismo, alzando contemporaneamente i toni dello scontro politico oltre l’inverosimile. In modo particolare, la chiusura di Twitter e Youtube da parte del governo – per altro presto annullata in entrambi i casi dalla corte costituzionale – ha fatto grande scalpore presso l’opinione pubblica internazionale. L’aspetto più preoccupante di tutta questa vicenda è tuttavia da individuare nella crescescente polarizzazione della società, frutto soprattutto dalla retorica molto violenta e divisiva usata quotidianamente dal premier.

La promulgazione del pacchetto democrazia dello scorso autunno, o la recente e storica apertura verso gli armeni, hanno rappresentato soltanto delle piccole parentesi di speranza in un quadro complessivo dalle tinte molto scure. Senza indugiare in facili allarmismi, sembra evidente che le preoccupazioni espresse da più parti sulla qualità della democrazia turca siano oggi da prendere piuttosto sul serio.

Del resto il recente trionfo elettorale non ha di certo risolto tutti i problemi di Erdoğan. Un mese più tardi la tragedia di Soma, con la morte di 301 operai impiegati in una miniera di carbone, ha messo a nudo in modo eclatante le pessime condizioni di lavoro in cui opera gran parte dei turchi. Com’era prevedibile in una situazione così infuocata, la vicenda ha dato immediatamente adito a forti polemiche di stampo squisitamente politico, rialimentando il fuoco sempre acceso della piazza con nuovi scontri e due nuovi morti. Anche in questa circostanza, gli attacchi al governo non sono stati del tutto pretestuosi: in 19 anni la Turchia non ha mai firmato l’accordo internazionale sulla sicurezza delle miniere, e la richiesta di un’interrogazione parlamentare sulla sicurezza del lavoro nell’area di Soma era stata respinta dai deputati dell’AKP appena due settimane prima dell’incidente.

Al di là dell’apparente immutabilità dipinta dalle nude percentuali elettorali, la società è profondamente cambiata, polarizzandosi e radicalizzandosi, così come il discorso politico e il rapporto tra il governo e la società civile. Anche un’eventuale vittoria di Erdoğan alle elezioni presidenziali di questa estate difficilmente metterà fine alle proteste di piazza, così come è improbabile che Gülen getterà facilmente la spugna. Gli eventi dell’estate del 2013 hanno messo in moto un processo lento ma irreversibile che è destinato a segnare in profondità la storia turca nel prossimo futuro, con esiti che oggi sono del tutto imprevedibili.

FOTO: Alan Hilditch, Flickr

 

Chi è Carlo Pallard

Carlo Pallard è uno storico del pensiero politico. Nato a Torino il 30 aprile del 1988, nel 2014 ha ottenuto la laurea magistrale in storia presso l'Università della città natale. Le sue principali aree di interesse sono la Turchia, l'Europa orientale e l'Asia centrale. Nell’anno accademico 2016-2017 è stato titolare della borsa di studio «Manon Michels Einaudi» presso la Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Attualmente è dottorando di ricerca in Mutamento Sociale e Politico presso l'Università degli Studi di Torino. Oltre all’italiano, conosce l’inglese e il turco.

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