Andrew Murphy e pregiudizi
Andrew Murphy e pregiudizi

CONFINI: Perché i pregiudizi limitano la nostra libertà

La prossima settimana East Journal inaugurerà una nuova rubrica, Confini, volta ad analizzare la storia e le vicissitudini che hanno portato alla creazione dei confini nazionali, analizzandone implicazioni e significato. Perché parlare di confini?

Noi tutti ci muoviamo nella vita convinti di non indossare nulla oltre i nostri vestiti, ma ogni volta che usciamo in strada portiamo con noi tutta una serie di convinzioni, conoscenze e pregiudizi che ci aiutano ad orientarci nella realtà. Non c’è niente di male, anzi, è necessario per poter agire e relazionarsi ai propri simili. Come scriveva Kant, non giudicare è impossibile, perché l’atto del pensare si sostanzia nell’attribuire un predicato a un soggetto, e quindi, nel giudicare. Ad esempio: “quell’uomo è nero”. Kant stesso ha fatto notare che la situazione diventa più complessa se al soggetto si attribuiscono predicati non immediatamente percepibili attraverso i sensi, ma frutto di un precedente giudizio, ovvero un pregiudizio. Ad esempio “quell’uomo è cattivo”, perché l’ho visto vendere droga in strada. Quindi quell’uomo non è solo nero, ma anche cattivo.

I pregiudizi si basano sul sentito dire e su precedenti interazioni di cui spesso ignoriamo le circostanze. Sono un utilissimo strumento per potersi affiancare alla realtà, ma poi è necessario informarsi e dare un giudizio proprio, basato su un’esperienza diretta. È stupefacente quanto ci si ritenga furbi nel fare affidamento ai pregiudizi, ma quanto si sia sciocchi nel non mettere in discussione quello che si sente dire. Spesso si farebbe meglio a riconoscere che non sappiamo di cosa stiamo parlando, e dovremmo preferire informarci piuttosto che dire come la pensiamo.

E qui veniamo alla ragione per cui nasce questa rubrica, ovvero, perché parlare di confini? Perché non sappiamo che cosa sono, ecco perché. Intuiamo per che ragione siano nati, ma come i pregiudizi, i confini sono diventati una realtà totalizzante che ha trasceso la sua funzione originaria. Ed esistono confini tra chi ha la pelle diversa, chi ha una lingua diversa, chi ha una diversa cittadinanza. Perché il primo confine è il nostro corpo, il secondo la nostra casa, il terzo il quartiere. Ce ne sarà sempre uno successivo, e al di là, persone che a loro volta avranno pregiudizi su di noi, senz’averci mai visti.

E così ci ritroviamo a rendere i confini di nuovo solidi, di nuovo sicuri, mura e recinzioni, filo spinato e centri di detenzione, come nel Medioevo, quando lo spessore delle mura del castello era l’unica garanzia di sopravvivenza. Siamo avanzati nel costruire società migliori, più vivibili, con nuovi ritrovati tecnologici. Eppure, ci ostiniamo a ricorrere a soluzioni che non hanno mai risolto niente, a utilizzare concetti inadeguati, a soffermarci sulle differenze, ad avere paura degli sconosciuti. Perché ci lasciamo trascinare da politici e mass media in questa spirale di paura? Perché non capire che libertà significa in primo luogo liberare la nostra mente dai condizionamenti inconsci? Perché in nome della paura ci ammanettiamo da soli, in nome di una sicurezza che ci vorrebbe far sopravvivere? Non so voi, ma io non voglio sopravvivere, voglio vivere, e la vita è tale solo se libera. La conoscenza rompe le catene.

Chi è Gian Marco Moisé

Dottorando alla scuola di Law and Government della Dublin City University, ha conseguito una magistrale in ricerca e studi interdisciplinari sull'Europa orientale e un master di secondo livello in diritti umani nei Balcani occidentali. Ha vissuto a Dublino, Budapest, Sarajevo e Pristina. Parla inglese e francese, e di se stesso in terza persona.

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