GEORGIA: “Le case degli altri”. Il diritto al ritorno degli sfollati interni

Una petizione online intitolata “Stop Airbnb from Listing Properties on Illegally Occupied region of Abkhazia, Georgia” lanciata nell’estate 2017 chiede il divieto di registrare sulla piattaforma Airbnb le proprietà situate in Abcasia, tranne nel caso in cui gli utenti possano dimostrare di esserne i “legittimi proprietari”. Iniziativa di un utente georgiano, la petizione ha raccolto finora 3000 firme e richiamato l’attenzione su un lascito particolarmente spinoso e delicato del conflitto abcaso-georgiano.

Ritorno e proprietà, diritti inalienabili degli sfollati

Appena prima del crollo dell’URSS, la popolazione dell’Abcasia, repubblica autonoma all’interno della Georgia sovietica, superava i 520.000 abitanti, includendo abcasi (17%), georgiani (45%), russi, armeni, e greci. La guerra con la Georgia, consumatasi nella sua prima fase tra il 1991 e il 1993, generò un’ondata significativa di sfollamento: oltre 250.000 georgiani furono costretti a fuggire dal conflitto e dalle campagne di pulizia etnica, rifugiandosi nel resto del territorio georgiano.

In un contesto di “conflitto congelato”, quello che sembrava uno sfollamento temporaneo si protrae oggi da oltre 25 anni. Solo 47.000 “returnees” poterono ristabilirsi nel 1994 nella regione di Gali (sud dell’Abcasia) dove vivono in condizioni di estrema insicurezza. La questione delle proprietà degli sfollati interni georgiani che tuttora non possono fare ritorno in Abcasia resta quindi irrisolta.

Un processo sistematico ma totalmente sregolato di appropriazione delle abitazioni abbandonate dagli sfollati ebbe inizio subito dopo la guerra. Tali appropriazioni arbitrarie coinvolsero sia gli abcasi le cui case furono distrutte nel corso della guerra, sia individui che miravano unicamente a speculazioni e profitti. 

In entrambi i casi, vennero violati i diritti degli sfollati interni. I “Principi guida sullo sfollamento interno” stilati dall’UNHCR riconoscono infatti il diritto (ereditario) degli sfollati interni alla restituzione delle proprietà in cui risiedevano permanentemente prima dello sfollamento. Un diritto che è anche riconosciuto dalla legge georgiana sugli sfollati interni (del 1996) e rivendicato da numerosi anni presso l’Assemblea generale dell’ONU.

Tra speranze e strumentalizzazione

Secondo uno studio condotto da Conciliation Resources nel 2011, circa il 90% degli sfollati tornerebbe a vivere in Abcasia, se questa venisse reintegrata dalla Georgia. Per gli sfollati, il ritorno in Abcasia è una speranza; per il governo georgiano, esso è invece una priorità geopolitica che aggiunge legittimità alle rivendicazioni territoriali sulla repubblica separatista. Dagli anni novanta a oggi, i leader georgiani hanno quindi cercato di alimentare tra gli sfollati il desiderio del ritorno.

In particolare sotto Saakashvili, la restaurazione dell’integrità territoriale della Georgia ritornò ad essere prioritaria, e la retorica sul ritorno degli sfollati in Abcasia si fece particolarmente incalzante. Nel 2006, Saakashvili lanciò un programma chiamato “My House”, che aveva lo scopo di mappare, grazie alle tecnologie satellitari e GPS, le proprietà degli sfollati sul territorio abcaso al fine di creare un archivio che ne facilitasse la restituzione. Un piano ambizioso che naufragò con lo scoppio della guerra in Ossezia del Sud nell’agosto 2008, la nuova ondata di sfollamento e il riconoscimento da parte di Mosca dell’indipendenza di Abcasia e Ossezia del Sud.

Mentre gli sforzi dei vari governi si concentravano sul ritorno degli sfollati in Abcasia, nessuna politica fu messa in atto per garantire loro delle condizioni di vita decenti e l’integrazione socio-economica nelle comunità georgiane. Solo dal 2010 fu attuata una (discussa) politica abitativa avente lo scopo di garantire agli sfollati un alloggio permanente e di loro proprietà. Questa tralascia però alcuni aspetti cruciali, quali la disoccupazione, la segregazione urbana e la dipendenza economica dai (magri) sussidi statali, che marcano ancora la vita quotidiana della maggioranza degli sfollati.

Alla luce di questa realtà, la restituzione delle proprietà in Abcasia appare come una questione molto meno urgente. Eppure, la sua strumentalizzazione (geo)politica funziona poiché le proprietà lasciate in Abcasia costituiscono oggi l’unico legame concreto degli sfollati con la loro regione d’origine.

Un destino incerto

La realtà è che, in caso di ritorno in Abcasia, circa la metà degli sfollati troverebbe la propria abitazione distrutta o fortemente danneggiata, e oltre il 20% dovrebbe vedersela con i nuovi abitanti che la occupano – nella maggioranza dei casi senza permesso.

Ma c’è anche un lato più “grigio” della questione. Parte degli sfollati avrebbe infatti contratto con la popolazione abcasa degli accordi di vendita o affitto della propria abitazione. Questi accordi permettono agli sfollati di percepire un guadagno (di cui hanno a volte disperatamente bisogno), trovando così una relativa compensazione per la perdita ed il trauma sofferti. Poiché tali operazioni sono mal viste dal resto della popolazione georgiana (sfollata e non), oltre ad essere inaccettabili dal punto di vista delle politiche ufficiali di Tbilisi, non si hanno dati precisi che ne dimostrino la diffusione. La legge sui territori occupati del 2008 ha infatti  reso illegale qualsiasi atto di compravendita di proprietà effettuato in Abcasia.

Dal 2008, il codice civile abcaso autorizza invece i cittadini a comprare i beni abbandonati da oltre 10 anni e dichiarati “privi di proprietario” dalle amministrazioni comunali. Tutto questo si gioca però in un contesto di “crisi abitativa”, dove l’alto costo dei beni immobili impedisce alle giovani famiglie abcase di permettersi l’acquisto di una casa, e la legislazione nega agli stranieri di comprare proprietà private. E sebbene l’Abcasia cerchi di ripopolarsi rimpatriando membri della diaspora dalla Turchia e dal Medio Oriente, il vuoto lasciato dai georgiani è ancora tangibile.

L’assenza di numeri precisi sulle proprietà abbandonate o occupate complica ulteriormente l’eventuale processo di restituzione e la difesa dei diritti degli sfollati interni. Infine, l’approccio “unilaterale” di entrambi i governi (de facto e georgiano) non aiuta a trovare una soluzione: in quanto eredità della guerra, il problema delle proprietà va affrontato nel contesto più ampio della risoluzione del conflitto. Nel frattempo, “le case degli altri” (come le definisce un recente film) restano lì: alcune abitate, altre lentamente inghiottite da radici e vegetazione spontanea – inutili agli abcasi tanto quanto ai georgiani, e per entrambi promemoria di un conflitto mai risolto.

Foto dell’autrice (Sukhumi, aprile 2016)

Chi è Laura Luciani

Nata a Civitanova Marche, è dottoranda in scienze politiche presso la Ghent University (Belgio), con una ricerca sulle politiche dell'Unione europea per la promozione dei diritti umani e il sostegno alla società civile nel Caucaso meridionale. Oltre a questi temi, si interessa di spazio post-sovietico in generale, di femminismo e questioni di genere, e a volte di politiche linguistiche. E' stata co-autrice del programma "Kiosk" di Radio Beckwith.

Leggi anche

Saakashvili

Il corpo del dissidente: il caso Saakashvili

Preoccupano le condizioni dell’ex presidente georgiano attualmente in regime di detenzione. Il suo caso solleva forti dubbi riguardo lo stato della democrazia georgiana.

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com