A Diyarbakır, incontrando la Turchia delle differenze

Dintorni di Izmir, 4 maggio 2014

Nel portico sotto agli olivi, davanti al tavolo della colazione, la domanda arriva secca e quasi violenta: «Perché andate a Diyarbakır? È una città pericolosa». La quarantenne da Istanbul, molto upper class, sembra rappresentare il prototipo perfetto di chi troppo si è fatto influenzare dai tanti media turchi che in anni hanno dipinto la città solo come un luogo pericoloso, stretto tra povertà, criminalità comune e intermperanze politico-indipendentiste. Non granchè intimoriti, anzi incuriositi dai racconti di altri viaggiatori (e turisti), noi ci aggingiamo per andare lì, nel Kurdistan.

Turchia orientale, 10 maggio 2014

Diyarbakır non è una città-museo ma un luogo vivo, segnato e percorso da tensioni, ma anche sorprendentemente aperto, pronto a far risplendere la propria storia. Eppure ancora non è un luogo turistico in senso stretto: «Where are you from?» è spesso l’unica frase che venditori di dolciumi o di spezie sanno pronunciare in inglese, accostandosi con curiosità a chi non parla la propria lingua. Istanbul, Izmir o anche Ankara sono lontanissime: di viaggiatori qui sembrano passarne ancora pochi, la curiosità o l’orgoglio sono evidenti negli occhi di chi cerca un dialogo. «Amo l’Italia, vorrei poter venire una volta da voi», ci dice quasi d’improvviso un uomo («faccio l’infermiere»), accostandosi su un marciapiede al trafficatissimo incrocio verso la kale, la cittadella ora in restauro, tra mura altissime e prestigiosi edifici del potere.

Le poderose mura in pietra nera sono il simbolo forse più noto della città, varcate da grandiose porte e vegliate da torri che paiono invincibili bastioni: due grandi strade, come un cardo e un decumano, innervano la città, srotolandosi come un continuo mercato. Di lato si aprono strade strettissime e vicoli: appena arrivato ci avventuriamo verso la chiesa dei cristiani caldei, primo luogo di culto di una delle tante minoranze di quella che un tempo era una città multiculturale e cosmopolita.

Censimento dell’anno islamico 1286 – 1869 d.C.: musulmani 9814; armeni 6853; armeni cattolici 831; assiri 1434; assiri cattolici 174; caldei 976; greci 305; greci cattolici 55; protestanti 650; ebrei 280

È dentro alla chiesa caldea che troviamo una prima sintesi storica, in un documento in inglese presentato ai visitatori, insieme ad una fotografia della città a inizio XX secolo, con i campanili delle chiese che svettano tra i cortili. Per arrivare si supera il curioso minareto della moschea Dort Ayakli, elevato su quattro pilastri in pietra che invitano al passaggio. Si pagano poche lire per entrare nella chiesa caldea, ma l’ostacolo della lingua è insormontabile, nulla scopriremo di più della antichissima confessione cristiana legata alla chiesa mesopotamica: lo sguardo già si posa sul campanile della chiesa armena, che leggero ed elegante ci guida nei vicoli, oltre un gruppo di bambini che giocano a pallone tra i muri dei palazzi moderni, sotto ad una scritta che inneggia al Pkk.

Diyarbakır, un tempo stretta tra le mura in pietra, è oggi fatta soprattutto dai quartieri moderni circostanti, cresciuti negli ultimi vent’anni: la città si è ingrandita con l’arrivo degli abitanti delle campagne e soprattutto delle montagne, in fuga dalla dura guerra tra Pkk ed esercito turco. Dentro la città c’è la prigione considerata dai curdi un simbolo della resistenza all’omologazione imposta da Ankara: tra le sue lugubri mura  sono stati rinchiusi fiancheggiatori del Pkk, ma anche  “semplici” sostenitori dell’autonomia curda e della lingua e cultura curda, fino alle aperture del 1991-92 e poi negli anni Duemila. Appena fuori dal centro, in taxi ci capita di passare accanto ad una caserma: le aree militari (se ne vedono spesso dai treni) sono enormi, quasi città nelle città, perché contengono anche i quartieri dove vivono gli ufficiali e i militari di carriera, con le relative famiglie. L’aeroporto civile della città – piccolo che pare una stazione ferroviaria – è solo un pezzo della grande base militare, con gli F-16 che fanno capolino dagli hangar corazzati e con le batterie di missili schierati.

Sia chiaro: la pietra bianca e nera dei monumenti ci ha portato qui, non posso pensare di avvicinare davvero la città più viva, di attraversarne consapevolmente le tensioni. Provo a vivere la cittàseguendo le tracce dell’identità multiculturale, così forte nel passato ma ancora viva nella realtà di oggi: nelle chiese caldea e siro-ortodossa è previsto un biglietto d’ingresso, che è anche un contributo a mantenere le due piccole comunità religiose e culturali (nelle foto: i cortili intorno alla chiesa siro-ortodossa). Nella armena Surp Giragos, però, si entra gratuitamente. Anzi: l’ampio cortile, i tavolini per bere çay servito da un anziano, la pompa dell’acqua per lavarsi sembrano un invito a restare, così che si ha l’impressione che Surp Giragos sia diventato un punto di ritrovo riconosciuto in città. La chiesa è stata distrutta e scoperchiata durante i pogrom del 1915 ed è rinata solo nel 2008, grazie al finanziamento della diaspora ma anche ai fondi del Ministero della Cultura: piaccia o meno, è un segno concreto e inequivocabile di una politica che riconosce e valorizza le differenze etniche e religiose, rispetto alla monolitica identità della Turchia kemalista. La rinnovata attenzione alla pluralità etnico-religiosa è una scelta rivendicata apertamente dal sindaco Osman Baydemir e dal suo partito (BDP, curdi democratici) ma anche una opzione costruita nel tempo dalla Turchia dell’AKP di Erdogan, anche con concreti interventi sul patrimonio culturale: mentre in Italia sui giornali si scrive – preoccupati o persino indignati – delle «moschee fatte edificare da Erdogan», evidentemente minore attenzione si pone al processo di riconoscimento e sostegno alle altre identità religiose in Anatolia (pur con qualche frenata evidente nel caso dei curdi). Eppure qui, a Diyarbakır, si è assistito a partire dal 2011 persino a battesimi cristiani di adulti “tornati” alla fede cristiana, dopo che le famiglie si erano convertite nel 1915 per sfuggire alle persecuzioni.

In un edificio accanto alla chiesa è in corso una mostra che associa alle foto delle case armene distrutte (alcune ancora oggi) le storie e le foto in bianco e nero di alcune famiglie armene originarie di Diyarbakır, portate lontano dal lavoro o dalle persecuzioni d’inizio secolo. «La nostra tragedia porta una data: 24 aprile 1915» ci ricorda un signore che parla bene inglese, richiamato dal custode.

L’iscrizione che segnala la “Ermeni kilisesi”, la chiesa degli armeni, sovrasta una porticina che forse un tempo era ingresso principale, ma che ora è solo passaggio di servizio:un gruppo di musicisti, insieme ad una ragazza dallo sgargiante vestito rosso e dai capelli sciolti, sta preparando il concerto della sera. Che cosa sia, lo ignoro ma la sera ci ritroveremo qui: risuonano canti delicati che sembrano lamenti,poi canzoni trascinanti su cui i giovani alzano il braccio piegato in avanti, con le dita a indicare la V di vittoria. La curiosità si deve leggere evidente nei nostri occhi: due ragazzi – lui più timido, lei velata e fiera nello sguardo – ci avvicinano. «Alcune canzoni sono in curdo, altre in armeno» , spiega la ragazza in un inglese fluente, specificando che la cantante ha origini armene. «Anche alcune canzoni in curdo parlano anche degli armeni costretti ad andarsene e della loro mancanza». Quasi una nostalgia curda per il vuoto lasciato dagli armeni dopo i pogrom del 1915: pochi decenni dopo quei fatti, furono gli stessi curdi a scoprire quanto pericoloso fosse il nazionalismo turco per chi aveva una identità diversa. Il tema ritorna anche nei canti alla Dengbe Evi, la casa del canto curdo che visitiamo il giorno dopo (nella foto): è un luogo che custodisce l’identità curda, passato da iniziativa semiclandestina a occasione “turistica” (e non c’è che da essere contenti, per questo).

Finito il concerto a Surp Giragos, attraversiamo i vicoli accompagnati da alcuni ragazzi: ci invitano ad un evento di autofinanziamento per il “Rojava”, il kurdistan siriano. Forse – ma non ne sono certo – è una raccolta fondi per l’YPG, la milizia di autodifesa curda in Siria che stava contenendo l’avanzata degli integralisti sunniti del Fronte Al Nusra e di un’altra formazione che allora – a maggio – era ancora semisconosciuta, lo Stato Islamico d’Iraq e Levante (Isil/Isis). Giornali, blog e social network raccontano di partenze quasi quotidiane da Diyarbakır e talvolta anche dei funerali dei caduti in Siria, accolti da eroi anche se sconosciuti al mondo: solo ad agosto 2014 nei tg europei si parlerà dei curdi e del loro ruolo nel contenere l’avanzata integralista.

Diyarbakır è una frontiera d’Oriente o una città pronta per diventare turistica? Malgrado i blindati della Polis costantemente presenti in centro (talvolta con mitragliatrice), dopo tre giorni quasi iniziamo a dare pieno credito alla seconda ipotesi, in mezzo a tante persone che affollano il caravanserraglio perfettamente restaurato. L’ultima sera, però, sembra per poco smentirci: stiamo concludendo la serata e il viaggio intero nel cortile di una casa armena, sorseggiando çaysalep mentre nell’aria risuonano le note jazz di Take Five di Dave Brubeck, quando improvvisamente slogan urlati nei vicoli richiamano l’attenzione di tutti i giovani clienti e i gestori. Dalla porta vediamo volteggiare una bandiera giallo-rosso-verde. Gli sguardi sono preoccuparti, due ragazzi fanno entrare nel cortile una coppia di adolescenti, sbarrano il portone con la trave messa di traverso. Mi viene in mente che durante la cena abbiamo visto gli elicotteri dell’esercito che al tramonto volteggiano sulla città, passando a bassa quota: sarà vero che le manifestazioni spontanee si accendono quando l’esercito turco “mostra i muscoli” ai curdi? Si sente l’esplosione di una bomba carta, verso l’incrocio principale della città, poi ancora slogan urlati. Dopo qualche minuto di attesa e uno sguardo prudente nel vicolo, ci avviamo verso la pensione che ci ospita. Giusto in tempo per incrociare – davanti al minareto su quattro pilastri – un blindato della polizia che si avventura guardingo nel vicolo seguito da un camion dei pompieri. La barriera linguistica è invalicabile, nulla potremo sapere di questo “incidente”, se non che forse è stato – appunto – un incidente, nel mezzo di un viaggio che non ha fatto intravedere altri pericoli, tra gente orgogliosa e cordiale, curdi e turchi. Diyarbakır continuerà a incuriosirmi a distanza, con la sua identità plurale.

http://ilprovincialecheguardailmondo.wordpress.com/2014/09/02/diyarbakir/

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