Ante Marković: l’ultimo premier, l’ultima Jugoslavia

“L’ultimo premier”, è l’inevitabile titolo che annuncia la scomparsa di Ante Marković, avvenuta lunedì 28 novembre a 87 anni. La stessa definizione che l’ha accompagnato da quel 20 dicembre 1991 in cui rassegnó le dimissioni da Primo Ministro della Federazione Jugoslava.

Nato nel 1924 a Konjic (Bosnia-Erzegovina), di nazionalità croata, Ante Marković aderì in gioventù al movimento partigiano antifascista. Dopo la laurea in elettrotecnica ricoprì, dal 1961 al 1984, la carica di direttore generale della “Rade Končar”, l’azienda zagrebese leader dell’elettromeccanica jugoslava. L’efficacia della sua gestione gli valse un tardivo, ma prestigioso ingresso nelle istituzioni: un vero “tecnocrata”, per usare una definizione ossessivamente in voga di questi tempi. Marković fu Primo Ministro (1982-86) e Presidente (1986-88) della Repubblica croata, prima di essere nominato, nel marzo 1989, Primo Ministro della Federazione Jugoslava. Il suo predecessore Branko Mikulić si era dimesso due mesi prima, travolto dalla caduta libera dell’economia federale, con un’inflazione di molto sopra le tre cifre e la crescita vertiginosa di disoccupazione e debito estero.

Marković si adoperò per intraprendere le riforme economiche strutturali rimaste incompiute, come il programma di privatizzazioni, l’apertura alle importazioni e la riorganizzazione del settore bancario. Il piano fu inizialmente appoggiato da Fmi, Banca Mondiale e da vari consiglieri economici occidentali, tra cui Jeffrey Sachs. Eppure Marković ci teneva a ribadire che il suo non era un progetto neoliberale, ma una sintesi tra un’economia con elementi di mercato e una difesa delle tutele sociali ereditate dall’autogestione titoista.

I primi risultati raggiunti con le riforme (freno all’inflazione, accumulo di riserve estere, convertibilità del dinaro) furono incoraggianti e quasi insperati. Il problema è che la “Terza Jugoslavia” di Marković, di impronta socialdemocratica e pluralista, richiedeva una politica monetaria e fiscale comune a livello federale: una soluzione impraticabile, di fronte alle consolidate autarchie economiche di Slovenia, Croazia e Serbia. Il premier tentò di aggirare l’ostacolo lanciando nel luglio 1990 un proprio partito, l’Alleanza delle Forze Riformiste (SRSJ). Ma anche in campo istituzionale la disgregazione jugoslava era un processo difficilmente reversibile. Le prime elezioni multipartitiche del 1990 si tennero a scala repubblicana e non federale, infiammando le retoriche nazionalistiche. La chiave dell’insuccesso fu la Bosnia-Erzegovina, dove il SRSJ rifiutó l’alleanza con i post-comunisti del SDP, sopravvalutando l’enorme popolarità che i sondaggi accreditavano a Marković. In quelle fatidiche elezioni bosniache del novembre 1990, il mancato accordo tra le due forze non-nazionaliste spianò la strada ai partiti etnico-nazionalisti: il loro dilagante trionfo – e la crisi politica che ne derivó – compose un altro pezzo, forse decisivo, del puzzle della disgregazione.

Fino all’ultimo, Marković tentò improbabili mediazioni con le leadership repubblicane e cercò sostegni finanziari e politici dall’estero. Questi, però, si fecero sempre più deboli fino a svanire nel nulla: primo tra tutti, quello degli Stati Uniti e dello stesso Jeffrey Sachs. “Non posso e non voglio finanziare un bilancio di guerra”: con queste parole Ante Marković rassegnò le dimissioni il 20 dicembre 1991, per poi sparire dalla vita pubblica. Si dedicò all’attività di consulente imprenditoriale, prima in Austria e poi, negli ultimi anni, tra Zagabria e Sarajevo. Nel 2003 rilasciò una deposizione contro Slobodan Milosević al Tribunale dell’Aja, riguardo l’accordo di Karadjordjevo per la spartizione della Bosnia-Erzegovina tra Croazia e Serbia. Dal 1991 Marković concesse appena un paio di interviste, mostrando una cordiale ma ferma reticenza non solo con la stampa, ma anche verso gli studiosi che smaniavano per conoscere i retroscena della Terza Jugoslavia e che ancora s’interrogano sulla portata di quell’esperienza.

Chi è Alfredo Sasso

Dottore di ricerca in storia contemporanea dei Balcani all'Università Autonoma di Barcellona (UAB); assegnista all'Università di Rijeka (CAS-UNIRI), è redattore di East Journal dal 2011 e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Attualmente è presidente dell'Associazione Most attraverso cui coordina e promuove le attività off-line del progetto East Journal.

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9 commenti

  1. La Jugoslavia, come la Cecoslovacchia, fu una “invenzione ” di Versailles, tenuta insieme solo da un autocrate come re Alessandro e un dittatore come Tito.
    Emilio Bonaiti

    • Gentile Emilio, dovrebbe conoscere i milioni di jugoslavi che ci hanno creduto. Gente altrettanto “inventata” evidentemente, eppure inspiegabilmente reale.

      • hanno creduto a una utopia. fatta da due alfabeti, tre religioni. per non parlare delle lingue. non stanno sulle dita di una mano

  2. Caro Fil S.Concordo con Mauricets. Essendo in età avanzatissima ricordo quando ci raccontavano che “milioni di persone” credevano nella defunta Unione Sovietica. Negli ambienti diplomatici di Belgrado si raccontava che il paese poteva essere riassunto in cifre: 6+5+4+3+2+1 = 0.
    6 repubbliche,5 nazioni, 4 lingue, 3 religioni, 2 alfabeti e 1 Tito. Scompare Tito, scompare l’Jugoslavia.
    Emilio Bonaiti

  3. Non so, avrò troppe dita io, ma di lingue ne conto tre: sloveno, serbocroato, macedone. Che oggi si sia arrivati per ragioni meramente politiche financo al montenegrino, è tema di cui si è già discusso.

    Inoltre so che l’idea di Jugoslavia precede Tito, precede Alessandro, precede anche il 1918. Senz’altro nasce in un contesto difficile, magmatico, lontano da tradizioni più europeiste di stati nazionali.

    Sono anche certo che la Jugoslavia è morta, e così come era prima del 1991 non tornerà mai. Ma sono altrettanto sicuro che solo chi l’ha conosciuta superficialmente, e da lontano, può trovare modo di liquidarla così facilmente, quasi banalmente, come mera “utopia”, o follia. E certi accostamenti con l’Unione Sovietica ne sono la prova lampante.

    Cordialmente,
    Filip Stefanovic

  4. A ciascuno il suo.
    Emilio Bonaiti

  5. invece la democrazia che hanno adesso questi paesi non è utopia?

  6. Caro Giorgio, la democrazia non é una forma di governo che può essere subitaneamente applicata a tutte le società ma si costruisce giorno per giorno. Le enormi difficoltà aumentano quando si tratta di comunità che non l’hanno mai avuta o sono reduci da regimi che con l’abolizione della libera iniziativa, della libertà di espressione, della prioprietà privata hanno creato un vuoto dal quale é difficile, molto difficile, uscire fuori.

  7. Patrizio Piacentini

    Cari amici, la Jugoslavia non è stata un’utopia ma un Paese reale che nel momento di sua massima crisi (può succedere in uno stato multinazionale) è stato “condannato a morte” dal calcolato riconoscimento di Croazia e Slovenia da parte del Vaticano. Se il mondo civile avesse voluto spegnere l’incendio avrebbe potuto farlo con una conferenza internazionale che costringesse le Repubbliche a sedere attorno ad un tavolo per parlare ed accordarsi sul futuro. Il Papa politico Giovanni Paolo II ha pugnalato alle spalle la Jugoslavia. Non parliamo poi della Germania… E questi, signori, sono dati di fatto e non chiacchiere. Senza contare che Milosevic è stato “eletto” a uomo della pace dalle cosiddette democrazie occidentali. Se ci fosse stato ancora Tito certamente la Jugoslavia non sarebbe stata spolpata da questi sciacalli travestiti da democratici (Vaticano, Germania, Usa, Regno Unito…).

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