UNIONE EUROPEA: Europeizzazione dei Balcani o balcanizzazione d'Europa?

Schematicamente abbiamo di fronte tre strade possibili. La prima: i Balcani finalmente “smettono di fare i Balcani” (insomma cessano di produrre “troppa storia”, parafrasando Churchill) perchè vengono progressivamente metabolizzati da una efficace integrazione europea. Seconda opzione: l’Europa, troppo indaffarata con i suoi cogenti problemi politico-finanziari, molla i Balcani al loro destino, con il rischio che questi ritornino ad essere quell’”Europa selvaggia” descritta nel passato dai temerari occidentali che si avventuravano in quelle lande. Infine – terza possibilità – il modello Balcani paradossalmente vince, nel senso che è l’Europa a balcanizzarsi fratturandosi in mille rissosità nazionali (se non nazionalistiche).
Ovviamente la terza soluzione (si fa per dire) è esattamente l’opposta della prima. Ma il punto è che se nel periodo che va dai trionfalismi un po’ naif seguiti alla caduta del muro di Berlino fino all’altro ieri l’opzione numero uno sembrava quella facilmente vincente, oggi quest’ultima si scolora, perde credibilità ed appeal lasciando spazio alle opzioni numero due e numero tre. Due strade altamente rischiose, soprattutto la terza che sembrerebbe perfino ricalcare, nel suo decostruire ottuso, un tremendo deja vu, quello jugoslavo di appena vent’anni fa.

Dei convincenti ragionamenti su questi temi sono contenuti in due libri di recente apparizione: il primo è “L’Europa del disincanto. Dal ’68 praghese alla crisi del neoliberismo”, a cura di Francesco Leoncini ed edito da Rubettino (€ 15). Il secondo è “Dopo la pioggia. Gli Stati della ex Jugoslavia e l’Albania (1991-2011)”, curato da Antonio D’Alessandri e Armando Pitassio e stampato da Argo (€ 30). Nel primo si mette a fuoco quella diffusa delusione che il neoliberismo sta producendo in tutta Europa (una “seconda sconfitta della Primavera di Praga”) dopo le grandi (forse troppo grandi…) speranze del ’68 e dell’89. Delusione che crea oggi conati populisti di variegata entità (si veda il caso dell’Ungheria) e rivisitazioni all’insegna del rimpianto (ecco il fenomeno dell’Ostalgie nel saggio del filosofo Giuseppe Goisis), ma anche i sussulti rabbiosi ed “indignati” di quel Zivilcourage che nutrì la protesta contro il “socialismo reale” in un tempo ormai lontano quanto ingenuo (ne è esempio la protesta dei giovani in Russia contro la fotocopia putiniana). Nel secondo volume, che nel titolo richiama il famoso film del macedone Milčo Mančevski “Prima della pioggia” (1994), cioè – fuor di metafora – i Balcani dopo lo tsunami catastrofico di vent’anni fa. Si sa che, “dopo la pioggia”, non è arrivato il bel tempo stabile, ma una transizione incerta ed infinita che tuttora accantona (senza risolvere) tanti problemi che si chiamano Bosnia, Kosovo, Macedonia, ma anche crisi economica, povertà, diritti civili, migrazioni, senso del futuro.

In particolare nell’intervento di Stefano Bianchini si sottolineano alcuni inquietanti parallelismi tra la disgregazione della Jugoslavia federale e quella di una UE che federale non riesce a divenire, ma si focalizza anche il ruolo di una crisi economico-finanziaria che minaccia al tempo stesso l’euro e tutta l’impalcatura dell’Unione, stimolando impulsi centrifughi sempre più nutriti. Impulsi generati anche da “nuove paure” che fanno ritenere l’interculturalità, la diversità, il meticciato, dei pericoli per l’identità e la sicurezza dei popoli. Insomma, scrive Bianchini,  “l’omogeneità nazionale è progressivamente incrinata dai diritti umani, dai meticciati culturali, dal diversificarsi dei nuclei familiari, dal moltiplicarsi dei convincimenti religiosi e dei comportamenti laici, dalle scelte individuali”. Da qui il ritorno al guardare con speranza all’ancoraggio forte ai rassicuranti Stati-nazione, in difesa da una globalizzazione sentita ormai come una minaccia alla Heimat (la domovina balcanica). Esattamente il sentiment opposto di quello di vent’anni fa.

La lezione (tragica) dei Balcani – stabilire pretese omogeneità nazionali in contesti tradizionalmente interculturali – appare dimenticata o negletta. Eppure l’Europa deve decidersi se “fare l’Europa” gestendo la sua naturale eterogeneità culturale. Evitando l’errore – usando un modo di dire russo – di voler fare meglio ma facendo come al solito. Perché oggi non si può più fare come al solito.

Chi è Vittorio Filippi

Sociologo, docente Università Ca’Foscari e Università di Verona, si occupa di ricerca sociale, soprattutto nel campo della famiglia, della demografia, dei consumi. Collabora nel campo delle ricerche territoriali con la SWG di Trieste, è consulente di Unindustria Treviso e di Confcommercio. Insegna sociologia all’Università di Venezia e di Verona ed all’ISRE di Mestre. E’ autore di pubblicazioni e saggi sulla sociologia della famiglia e dei consumi.

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