RUBRICA: Occidenti
Con le elezioni di domenica scorsa in Catalogna si chiude una fase straordinariamente breve e intensa, lucida e folle, della storia di questo paese. Un periodo durato 75 giorni, iniziato a Barcellona l’ 11 settembre scorso con l’enorme manifestazione indipendentista che raccolse due milioni di persone dietro lo slogan “Catalogna, nuovo stato d’Europa”. Il presidente catalano Artur Mas cercò di raccogliere il vento di quella giornata, sciogliendo subito il Parlamento. Mas garantì che la prossima legislatura avrebbe indetto un referendum unilaterale sull’autodeterminazione catalana, conferendo così un valore quasi plebiscitario alle imminenti elezioni. Tutto questo, non prima di dare un’improvvisa svolta indipendentista al suo partito, Convergencia i Unió (CiU, una sorta di Democrazia Cristiana fedele alla borghesia imprenditoriale e ai ceti medi) da sempre autonomista ma finora mai con propositi secessionisti. La svolta sembrava poter deviare i binari della storia catalana, spagnola e, perché no, europea: quello catalano si presentava infatti come il primo processo secessionista in Europa occidentale del dopoguerra, nonché il primo tutto interno all’UE. Proprio come la la Scozia, che già sta preparando il referendum per il 2014, ma secondo i sondaggi ha ottime possibilità di perderlo. Invece in Catalogna le ultime inchieste su un ipotetico quesito indipendentista vedono i “sì” in vantaggio, per la prima volta nella storia.
La campagna elettorale si è caratterizzata da subito per la forte polarizzazione tra indipendentisti catalanisti e unionisti spagnolisti, schieramenti in toto trasversali all’asse sinistra/destra. Tra i primi: i democristiani di CiU, i socialdemocratici di Sinistra Repubblicana (ERC), l’ultrasinistra della CUP e infine – pur con una posizione più moderata – gli ecosocialisti di Iniziativa per Catalunya (ICV). I secondi sono il movimento civico (vagamente “grillino”) di Ciutadans e il Partito Popolare. In mezzo il Partito Socialista, sostenitore di un’intermedia opzione federalista.
Oltre alle evidenti strumentalizzazioni partitiche, gli animi indipendentisti sono eccitati dalle feroci conseguenze della crisi (che, com’è ben noto, è terreno fertile per sublimazioni identitarie collettive), ma anche stimolati dall’efficienza dell’economia e del welfare catalani, sempre superiori rispetto agli standards spagnoli malgrado la stessa crisi (cosa che scatena le inevitabili controaccuse di egoismo economico – ). È bene ricordare che sull’indipendentismo influisce anche la specificità culturale, che s’identifica con la lingua catalana parlata da 11 milioni di persone nel mondo. E pesa la strenua ostilità anti-catalanista del Partito Popolare spagnolo, che non solo è contrario alle proposte di autonomismo fiscale e culturale avanzate da Barcellona, ma rifiuta ad aprire un minimo confronto su di queste. Fu il PP ad affossare lo Statuto di Autonomia catalano, bocciato nel 2010 dal Tribunale Costituzionale spagnolo proprio su ricorso dei popolari. Quella vicenda è il vero prologo di questa campagna elettorale.
La caduta del grande tabù dell’indipendenza ha obbligato un po’ tutti, individui e organizzazioni, locali e stranieri, a prendere posizione se non a schierarsi apertamente sulla questione nazionale catalana. La febbre identitaria, oscillante tra euforia e panico collettivo è corsa sui manifesti, per le strade e sui media catalani e spagnoli, talvolta con operazioni un po’ subdole da entrambe le parti, e con dichiarazioni volutamente sopra le righe. “Siamo su un terreno sconosciuto”, ha chiosato Artur Mas in trance messianica e illusionistica. Inutile dire che la questione nazionale ha però offuscato problemi sociali e temi concreti, grandi assenti di questa campagna elettorale: la piccola impresa in agonia, il debito pubblico, gli ospedali pubblici che chiudono, le mense scolastiche e le borse di studio tagliate, gli abusi e le violenze della polizia catalana.
I risultati. Perde la copia, vince l’originale
Passando ai risultati delle elezioni, occorre partire dal dato più in controtendenza con il resto del continente. È la prima volta negli ultimi anni, e non solo in Catalogna ma nell’ Europa intera, che la partecipazione al voto aumenta. E non di poco (69% contro 58%). La questione nazionale riempe non solo le piazze, ma anche le urne. Più della crisi economica, sembra.
In secondo luogo, il risultato più netto delle elezioni è il tracollo di Convergencia i Unió, che resta il primo partito catalano ma perde 12 dei 62 seggi che aveva conquistato nel 2010, e scende dal 39% al 30% dei voti. Una vera batosta per il presidente uscente Mas, lontanissimo dalla sognata quota 68, ovvero la maggioranza assoluta. La cosiddetta “Democrazia Cristiana” puntava, col make-up secessionista, a tramutarsi in “partito unico” della nazione catalana, un po’ come l’ African National Congress in Sudafrica con “re Artur” Mas a fare da Mandela. Invece è fallito miseramente, al punto che nei media spagnoli il presidente catalano, dopo essere stato dipinto per mesi come “uomo nero” e spauracchio della disintegrazione nazionale, è diventato improvvisamente uno zimbello oggetto di costante derisione.
I vincitori delle elezioni sono, non a caso, partiti con posizioni “estreme” sulla questione nazionale: la sinistra indipendentista di ERC dal 7 al 13%, gli spagnolisti unionisti di Ciutadans dal 3% all’8%. Vincono con motivazioni e background molto diversi: ERC è la forza veterana della scena catalana, con 80 anni di storia, premiata da un elettorato che ha preferito l’originale alla copia, l’indipendentismo autentico e consolidato di ERC a quello posticcio e poco credibile di CiU. Ciutadans invece è un partito giovane, che oltre all’unionismo anti-catalanista punta sulla trasparenza delle istituzioni e su una retorica vagamente anti-casta (ecco perché un po’ “grillini”). Crolla ancora una volta, e come previsto, il Partito Socialista (14%; 6 anni fa aveva il 30%…) per il quale in Spagna è stato coniato un termine ad hoc, quello di “pasokizzazione”. Il PSC è stato affondato dalla crisi del partito a livello nazionale, ma anche da una posizione “federalista” tardiva e poco credibile, soprattutto se pronunciata da un partito che è stato per 21 anni al potere in Spagna (e 7 in Catalogna) senza mai avanzare una proposta federalista. Chi invece guadagna terreno sono i popolari (13%) e gli ecosocialisti post-comunisti di Iniciativa (ICV, 10%). Una novità importante è l’ingresso in parlamento della sinistra radicale e indipendentista della CUP (3%), con una struttura assembleare e nessuna visibilità – finora – nei media ufficiali, ma forte presenza nei movimenti sociali e in ambito locale.
Nel complesso, la frammentazione del risultato è davvero impressionante, in linea con quanto è successo nelle ultime elezioni in Grecia, e con quanto avverrà in quelle italiane della prossima primavera: il primo partito raggiunge a malapena il 30% (CiU), poi tre partiti compresi tra il 13 e il 14% (PSC, ERC e PP) due tra l’8 e il 10% (ICV e Ciutadans). Molti opinionisti catalani parlano di “parlamento italianizzato”, in “omaggio” alla nostra Prima repubblica. E probabilmente emergerà proprio il quadro tipico della vecchia politica italiana: alleanze variabili ad hoc, nessuna maggioranza stabile e probabile conclusione anticipata della legislatura. Del resto, l’esistenza di due assi trasversali, catalanismo/spagnolismo vs. sinistra/destra, sfasa gli equilibri. L’alleanza più ovvia sarebbe Convergencia + Sinistra Repubblicana, ma da ERC hanno già risposto picche, perché non vogliono rendersi complici dei tagli allo stato sociale apertamente sostenuti da CiU, anche se premeranno per il referendum secessionista. Sembrano per ora improbabili le combinazioni CiU-socialisti (i due grandi sconfitti delle elezioni: che credibilità avrebbe un governo simile?) o CiU-PP (che hanno identiche posizioni neo-liberali, ma sono agli antipodi sulla questione nazionale). È comunque curioso che, la sera della débacle elettorale, un Mas in preda alla frustrazione abbia chiesto alle altre forze politiche di partecipare al governo, perché stanco di assumersi da solo le responsabilità della crisi. Finora non si era mai sentita una conferma così esplicita del fatto che, nell’Europa della crisi, il potere logora chi ce l’ha.
Concludiamo con la domanda-chiave: ma quindi, tra indipendentismo catalano e unionismo spagnolo, chi ha vinto? Sommando i due schieramenti, il risultato sarebbe praticamente invariato rispetto al 2010: oggi 87 catalanisti vs. 48 spagnolisti (nel 2010 erano 86 vs. 49). Eppure, il risultato sembra rinfrancare più gli unionisti che gli indipendentisti. Questi ultimi non hanno centrato l’exploit plebiscitario desiderato, restando sotto la soglia dei 2/3 del parlamento che avrebbe permesso di spingere con più forza per il referendum. La sinistra catalanista non ha i numeri per guidare da sola il processo secessionista, il cui futuro dipenderà dai rapporti interni a Convergencia i Unió. Dentro CiU sono stati rapidissimi nel cavalcare il secessionismo, e altrettanto velocemente potrebbero abbandonarlo. Domenica sera la faccia corrucciata e seccata di Antoni Duran i Lleida, leader dell’ala di CiU più critica verso la svolta indipendentista di CiU, era davvero tutto un programma.
Il processo per l’indipendenza catalana entra in una fase di stallo, il che non vuol dire – contrariamente a quanto precipitosamente sostenuto da alcuni media spagnoli e internazionali – che sia uscito nettamente sconfitto. Come si è già ben spiegato su queste pagine, la questione catalana non è nata con Artur Mas e non morirà con Artur Mas. Al di là dei risultati elettorali, tutti gli altri fattori che la fomentano, a cominciare dalla crisi economica – che, secondo le recenti previsioni del FMI, a inizio 2013 picchierà ancora più duro in Spagna -, restano al momento irrisolti.