CINEMA: Il Trieste Film Festival tra cinema polacco e nuovo cinema rumeno

Il Trieste film festival ha dedicato molto spazio al cinema rumeno e polacco grazie a due focus specifici. Iniziamo con tre documentari rumeni he hanno fatto parlare molto durante il festival. Molto apprezzato dal pubblico è stato Cinema mon amour di Alexandru Belc, un lavoro che inizia con una didascalia sconvolgente: in tutta la Romania sono rimasti in attività 30 sale cinematografiche. Solo 30, in tutto il paese! Il documentario segue la follia del trascinante protagonista Victor Purice che ha deciso di tenere aperto il suo cinema in un paese di provincia e fa i salti mortali per sopravvivere, il film è divertente e fa riflettere sul percorso umano di Purice, esercente, ex proiezionista e cinefilo, che è costretto a inventarsi di tutto per far venire la gente al suo Dacia Panoramic. Il cinema, i film e la poetica del cinema, rimangono sullo sfondo, il regista preferisce concentrarsi su questo bel racconto di solitudine, speranza e sogni non realizzati.

Sotto le aspettative l’attesissimo Chuck Norris vs Communism di Ilinca Calugareanu (vincitore del Premio assegnato da “Osservatorio Balcani e Caucaso”), prometteva molto per la storia di come il cinema americano è arrivato di contrabbando in Romania: i film di Chuck Norris, Van Damme, Steven Seagal, i vari Karate Kidd, Rocky, Rambo e chi più ne ha più ne metta, tutto cinema allora censurato da Ceusescu, arrivava di nascosto e veniva doppiato in rumeno dalla stessa doppiatrice che doppiava i film ufficiali. Un cortocircuito fantastico che però il regista ci mostra solo con interviste compiaciute e ricostruzioni troppo di fiction, film che diverte ma non offre nulla più. Più bella la storia che il documentario.

Toto and his Sisters di Alexander Nanau è invece un buon film (già vincitore a Sarajevo), narra di una storia di ragazzi che crescono da soli mentre la madre è in carcere per droga. Nanau filma la quotidianità da bravo documentarista d’osservazione, cogliendo piccole e grandi cose e riuscendo a stabilire un rapporto di grande fiducia con la famiglia che coinvolge così lo spettatore nel percorso di crescita dei ragazzi.

Il concorso offriva altri due film rumeni, tra i quali il nuovo lavoro di Corneliu Porumboiu, il regista più importante del paese (più di Mungiu a mio avviso). Con The Treasure, già apprezzato a Cannes, ci racconta una storia/favola nella quale due vicini di casa si mettono alla ricerca di un tesoro dell’epoca comunista, il viaggio e certi tocchi surreali andranno a rivelare molte contraddizioni della Romania di oggi. Sempre divertente anche se lontano dalla genialità dei film precedenti (A Est di Bucarest e The second game).

Molto deludente l’altro film del concorso Lumea e a mea – the word is mine del giovane regista Nicolae Constantin Tanase: un ritratto della tredicenne Larisa e di certa gioventù che guarda a soldi, centri commerciali e sesso come unici obiettivi nella vita. Noioso e prevedibile film con una confezione da festival che irrita.

Si è potuto rivedere anche Aferim! di Radu Jude (Orso d’argento per la regia alla scorsa Berlinale), un progetto che unisce produttivamente Romania Bulgaria e Repubblica Ceca: un notabile rumeno nel ‘800 dà la caccia a uno schiavo gitano, ne esce un road movie straniante. È film ambizioso e inizialmente colpisce per una splendida fotografia in bianco e nero e per le lunghe inquadrature spesso immobili. Alla lunga però il film, che dovrebbe raccontare di potere e giustizia, razzismo e schiavismo, si riduce a una storia di letto che lascia più di un dubbio.

Passiamo al Focus sul cinema polacco che oltre al Decalogo di Kieskowski ha presentato una retrospettiva del giovane documentarista polacco Marcil Koszalka, classe 1970, la vera scoperta del festival. Molti suoi documentari erano già stati presentati negli anni scorsi a Trieste, quest’anno ha portato qui il suo primo film di finzione, The red spider, inserito nel concorso principale.

Con questo omaggio è stato possibile scoprire i suoi precedenti lavori e capire molto del suo modo di fare cinema che è collegato alla sua vita e alle sue paure. È cinema particolare quello di Koszalka, i primi documentari sono personalissimi e girati con la propria famiglia (straordinario a questo proposito il suo esordio Che bravo ragazzo ho partorito dove mette in scena un confronto/scontro con la madre di terrificante durezza). È un cinema nel quale il regista entra in campo e dialoga con i suoi “personaggi”, somiglia a Herzog con ancora più inquietudini e meno ironie, con una relazione con la morte sempre presente, anche troppo come in Scappiamo via da lei , film del 2010, nel quale filma la sorella e si relaziona con lei dialogando della madre e del padre appena morti. Sempre in rapporto alla morte, e alla gloria, è stata una rivelazione il recente Dichiarazione di immortalità nel quale mette in scena l’amico e grande scalatore Piotr “Mad” Korczak, un film che mi ha fatto pensare all’intagliatore Steiner di herzoghiana memoria.

The red spider, il suo esordio nel lungometraggio di finzione, è un film altrettanto particolare: racconta la storia di un serial killer che ha terrorizzato la Polonia tra gli anni ’60 e ’70 e il fascino che ha avuto su un giovane emulatore. È un film fin troppo pulito, si percepisce lo stesso tormento che si vede nei suoi documentari ma forse la forma fin troppo ricercata (Koszalka è anche direttore della fotografia) rischia di annacquare un po’ queste sue tragiche visioni. Comunque un esordio che non lascia indifferenti e un cineasta da tenere d’occhio per il futuro

Claudio Casazza

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