Drvar, da città eroica di Tito a città morta

Curioso il destino di Drvar, cittadina situata nel nord-ovest della Bosnia. Curioso e paradigmatico. Pochi giorni fa Le Courrier des Balkans ha scritto di “un funerale di prima classe per la città di Drvar”, un funerale celebrato lunedì 4 marzo dai suoi stessi abitanti. La cittadina, infatti, è defunta: economicamente e demograficamente. La disoccupazione ha raggiunto l’astronomico tasso dell’80 per cento mentre la principale azienda del posto, che lavorava il legno (drvo in serbocroato, da cui il toponimo) ha chiuso i battenti lasciando a casa trecento persone. Prima della guerra a Drvar c’erano 17.000 abitanti, oggi sono esattamente la metà, quasi tutti ritornati dopo le pulizie etniche trascinate dai conflitti; ed anche la demografia sembra non avere futuro, dato che l’anno scorso i morti sono stati 112 contro solo 27 nascite.

Eppure Drvar ha un passato famoso e soprattutto glorioso. Venne definita orgogliosamente Grad heroj (letteralmente “città-eroe”) negli anni della Jugoslavia socialista. Perché il 25 maggio del 1944, giorno del compleanno di Tito, la cittadina fu attaccata da 800 paracadutisti delle SS allo scopo di catturare il leader jugoslavo che aveva stabilito lì il proprio quartier generale. Fu la settima ed ultima offensiva per eliminare Tito, divenuto ormai troppo potente per gli occupanti nazisti dei Balcani. In termini militari il colpo di mano tedesco andò vicino all’obiettivo e Tito rischiò molto, come si può leggere nel libro appena uscito di David Greentree (“Caccia a Tito”, Libreria Editrice Goriziana, 2013). Ma da un punto di vista che oggi chiameremmo mediatico, fu un successo che enfatizzò sia il carisma del Maresciallo che il suo movimento partigiano, che lì sacrificò centinaia di combattenti. Lo stesso Himmler, capo delle SS, disse: “Mi piacerebbe che la Germania avesse una dozzina di uomini come Tito, veri comandanti, determinati e con i nervi saldi”.

Lo sconosciuto villaggio di Drvar divenne così uno dei luoghi sacri in cui cominciò a manifestarsi la mitopoiesi dello jugoslavismo socialista e partigiano. Tutti i monumenti ed i memoriali che costellarono la Jugoslavia vollero al tempo stesso celebrare l’epopea partigiana (come sui luoghi della Sutjeska e della Kozara, teatri di battaglie eroiche) e sottolineare la palingenesi di uno Stato che in nome della “fratellanza ed unità” finalmente cancellava gli orrori e le divisioni del passato. Un passato feroce, dato che non ci fu solo una guerra contro i tedeschi, ma anche una spaventosa guerra civile: nel campo di sterminio di Jasenovac le vittime degli ustaša croati furono soprattutto serbe.
Nel 1974, trentennale della battaglia, la città di Drvar fu decorata con l’ordine degli eroi popolari e la grotta in cui si riparava Tito (Titova pecina) divenne luogo di pellegrinaggio con tanto di museo e di percorsi guidati visitati da 200 mila turisti all’anno. E dopo la morte del Maresciallo la città cambiò il nome in Titov Drvar.

Come sappiamo, il culto della memoria e del mito non evitò i nazionalismi degli anni ottanta e novanta. Anzi, proprio la forzosità e la superficialità di tale culto favorì una disinvolta riscrittura della storia in chiave vittimistica e rancorosa. Migliaia di monumenti furono spazzati via e tanta toponomastica recuperò nuove radici storiche vere o presunte. La stessa Drvar, coinvolta nella guerra in quanto appartenente alle Krajine serbe, subì la riconquista croata del 1995 con il correlato esodo degli abitanti serbi mentre i luoghi della resistenza partigiana vennero distrutti.

Nel 2006, grazie all’aiuto statunitense il percorso è stato ricostruito, ma mancano i visitatori. Manca soprattutto una memoria condivisa che oggi è ripudiata, o negletta, o ingombrante. Perché ricorda una unità imbarazzante. Paradossalmente però i nazionalismi non hanno saputo creare nessuna convincente e seria identità nazionale o collettiva e oggi nei Balcani gli ideali democratici, liberistici ed europeistici suonano alquanto scontati ed astratti. E quindi lontani e freddi.

Drvar non è più la grad heroj perché non deve ricordare più nulla di quel sacrificio partigiano che costituì lo stato nascente della Jugoslavia titoista. Anzi, come ci ricorda Le Courrier, rischia addirittura di scomparire come grad, come città.

Photo: Tomislav Mavrovic, Flickr

Chi è Vittorio Filippi

Sociologo, docente Università Ca’Foscari e Università di Verona, si occupa di ricerca sociale, soprattutto nel campo della famiglia, della demografia, dei consumi. Collabora nel campo delle ricerche territoriali con la SWG di Trieste, è consulente di Unindustria Treviso e di Confcommercio. Insegna sociologia all’Università di Venezia e di Verona ed all’ISRE di Mestre. E’ autore di pubblicazioni e saggi sulla sociologia della famiglia e dei consumi.

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Un commento

  1. Ottimo articolo,finalmente si parla della Bosnia occidentale.Ma mi permetta,signor Filippi,di correggerla:Drvar non faceva parte della Krajina,la Krajina è in Croazia mentre Drvar è in Bosnia.Durante la guerra ha fatto parte della Republika Srpska,poi è stata conquistata dall’esercito croato.Non è stata quindi riconquistata,perché non ha mai fatto parte della repubblica croata.Mi chiedo come mai la Croazia,pur avendo di fatto invaso uno stato sovrano qual era la Bosnia-Erzegovina,non abbia subito un embargo o un bombardamento Nato.

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