Quando la Turchia è Europa

RUBRICA: Opinioni ed eresie

Il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea è di quelli che accendono gli animi. Il fronte del “no”, che finora ha avuto la meglio, è eterogeneo e diversi sono gli ordini di problemi: in primis c’è il fatto che la ripartizione dei seggi al Parlamento europeo è basato sulla popolazione, tanto più popoloso è uno Stato, tanti più seggi avrà. Oggi la Germania è il paese con più seggi, ben 96. La Turchia, con una popolazione pressoché pari a quella tedesca, si troverebbe ad avere molti (troppi, secondo alcuni) seggi. Tanto più, e questo in secundis, che la Turchia è un paese musulmano e l’Europa in cerca d’identità non sembra in grado di accettare il proprio retaggio islamico.

L’ingresso della Turchia in Europa non sarebbe però la pavida resa a conquistatori pronti a distruggere la civiltà occidentale e la stessa costruzione europea: sarebbe al contrario il sintomo incoraggiante di una riconciliazione tra civiltà, l’occasione per il rafforzamento, il rinvigorimento, il ringiovanimento dell’Unione. E non ci sono dubbi sull’appartenenza della Turchia all’Europa: appartenenza che è oggi vocazione, scelta, autoimposizione. Storicamente, l’Impero ottomano ha fatto parte per secoli del sistema europeo: e nel 1856, alla Conferenza della pace di Parigi per la conclusione diplomatica della guerra di Crimea, ha ottenuto la formale inclusione nel concerto delle grandi potenze (allora tutte europee).

Geograficamente, è vero che la Turchia è europea, nell’accezione comune, solo per uno spicchio di Tracia orientale al di qua del Bosforo, mentre il cuore anatolico è in Asia: ma le appartenenze geografiche non sono immutabili e variano al variare dei contesti storico-culturali e dei progetti politici realizzati. Politicamente, la Turchia fa parte da oltre 60 anni del mondo occidentale ed europeo: attraverso l’adesione al Consiglio d’Europa (1949) e alla Nato (1952), attraverso il processo di integrazione europeo a partire dall’accordo di associazione (1963) e passando per la costituzione dell’unione doganale (1996) fino all’ottenimento dello status di candidato (consiglio di Helsinki del dicembre 1999, i negoziati sono ufficialmente partiti nell’ottobre 2005). Fin dagli anni Novanta è parte integrante degli sforzi multilaterali europei per la stabilizzazione e la ricostruzione dell’Europa sud-orientale; disputa tutte le più note competizioni sportive continentali, i suoi studenti possono usufruire dei programmi paneuropei di scambi universitari (l’Erasmus su tutti); Istanbul è stata nel 2010 la capitale europea della cultura: con numerose iniziative per il recupero delle sue radici millenarie e altamente diversificate.

Nel dibattito sulle radici d’Europa, ovvero sulla costruzione di una storia comune che preluda all’identità comune quale necessario fondamento per l’unità politica, la Turchia è il sassolino nella scarpa per gli storici conservatori. Non per tutti, però. Franco Cardini, storico tra i più importanti d’Italia, con un passato nell’estrema destra e un presente da cattolico, ha scritto un libro illuminante, Europa e Islam, storia di un malinteso, nel quale – riprendendo le tesi di Bernard Lewis – illustra l’osmotica e secolare storia di relazioni tra le due civiltà asserendo che l’Europa moderna non sarebbe esistita senza il contributo islamico.

Oggi questo scambio sembra rinnovarsi: dal mondo arabo arrivano migliaia di persone a rivitalizzare con le loro braccia forti e la loro voglia di futuro la vecchia e stantia Europa. Dalla Turchia – in particolare – e dal Nordafrica arriva una scossa alla politica continentale. Le prese di posizione di Ankara nei confronti della questione cipriota e dei rapporti con Israele, ad esempio, sono un importante sprone per le cancellerie europee costrette a fare i conti con problemi finora nascosti sotto il tappeto. La politica estera turca è senz’altro mossa da istanze egemoniche: lo scopo di Ankara è quello di affermarsi come paese leader nel Mediterraneo Orientale senza però dimenticare i Balcani.

La visione di Davutoğlu, ministro degli Esteri turco, è di completa rottura con la tradizione kemalista imperniata sul primato della sicurezza militare, sulla percezione dei vicini come nemici non solo potenziali, su un generale isolamento, sulla granitica fedeltà (con qualche piccola crepa, l’invasione di Cipro nel 1974) all’Alleanza atlantica e all’Occidente della Guerra fredda come antemurale contro il pericolo sovietico; un piano di azione criticamente definito dai sui detrattori “neo-ottomano”: il rigurgito imperiale dalla legittimità e connotazione islamica, la tentazione di dominio neo-califfale per imporre la supremazia di Ankara su tutto ciò – territori, beni, persone – che appartiene all’ex Impero ottomano – in Asia, in Africa, nei Balcani.

A Davutoğlu questa etichetta non piace, lo ha affermato anche nel celebre discorso di Sarajevo del 16 ottobre 2009 in cui ha rivendicato l’eredità ideale dell’Impero ottomano fatta d’integrazione multiculturale e multireligiosa, di apertura agli scambi e centralità nell’economia globale dell’epoca, di circolazione delle élites: “Come il XVI secolo vide l’affermazione dei Balcani ottomani come centro della politica mondiale, renderemo in futuro i Balcani, il Caucaso e il Medio Oriente di nuovo il centro della politica mondiale. Questo è l’obiettivo della politica estera turca: e lo conseguiremo!”

Toni da piccola potenza in crescita, stanca di essere snobbata da Bruxelles, di essere ancella americana, isolata e povera. E’ senza opportunismo che l’Europa dovrebbe guardare alla Turchia, senza calcolo: oggi Ankara è un partner necessario, un interlocutore privilegiato per la questione mediorientale, una democrazia in fieri, una economia in crescita, un antagonista scomodo che è meglio farsi amico “prima che si allei con l’Iran e cada preda del fondamentalismo islamico” come dice la vulgata. Non per questo l’Europa dovrebbe aprirsi alla Turchia ma riconoscendo invece quanto europea sia la storia turca come europea è anche buona parte della cultura islamica, che in Bosnia, Sicilia, Andalusia, si è sviluppata nelle arti e nelle scienze. Quello di cui l’Europa ha bisogno è un profondo esame di coscienza, oltre che una riscoperta della propria cultura, poiché rifiutare la Turchia è rifiutare una parte di noi stessi.

Chi è Giuseppe Mancini

giornalista, storico, analista di politica internazionale. Vive a Istanbul: Ha collaborato con East Journal dall'aprile all'ottobre 2011

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7 commenti

  1. Tutto verissimo e tutto chiarissimo.
    Ma ho una domanda spinosa: se si decidesse di interpretare in senso molto lato il concetto geografico di Europa con la Turchia (di fatto, di smettere di considerarlo perchè, appunto, la Turchia è quasi interamente Asia), che cosa potremmo rispondere a mille altri possibili desideri di membership europea?
    Chiedete ad un georgiano se si sente europeo. L’armenia condivide con l’Europa la forte tradizione cristiana. Marocco, Algeria, Tunisia parlano francese, hanno scuole prestigiose in cui si insegna solo in inglese e francese, studiano la letteratura europea più di quella araba. E si potrebbe andare avanti ancora…
    Senza una discriminante geografica, anche l’Australia è molto “europea”.
    Quale diventa allora il limite?

    • Ciao Silvia
      ovviamente nell’articolo abbiamo espresso un’opinione cercando di fondarla su dati storici e culturali. Per coloro che sono anti-islamisti o semplicemente più conservatori, l’Europa geografica coincide con quella (potenzialmente) politica. Sappiamo però che i due concetti non coincidono del tutto. Personalmente concordo con quelli che non fanno aderire il concetto di Europa politica a quello di Europa geografica. Già l’Unione Europea è fuori dall’Europa: Guadalupe, Martinica, Ceuta e Melilla, sono territori europei in centro-sud America e Nordafrica. Condivido idealmente anche quelli che parlano, in luogo di Europa, di “europe” al plurale poiché anche l’Australia o la Nuova Zelanda sono molto “europee”. Credo però si debba stare coi piedi per terra e quindi, rispondendo alla tua domanda, penso che il concetto geografico di Europa possa essere la base – pur elastica – per l’Europa politica. Il Caucaso meridionale è – secondo me – pienamente europeo: specie se guardiamo a Georgia e Armenia. Esse sono aree culturalmente e storicamente europee. Vale anche il concetto di riconoscimento nell’identità europea: la Russia è in parte europea ma non “si sente” europea e quindi non lo è.

      Io non sono un politico né uno storico, la mia personale opinione è che l’allargamento dell’Unione debba seguire diverse direttrici: quella storica, quella culturale, quella geografica, quella della continuità territoriale (poiché un’Europa unita politicamente avrà bisogno di frontiere definite e difendibili da un esercito comune oltre che efficienti vie di trasporto e comunicazione interne tali da garantire equo sviluppo a tutte le sue regioni). Queste direttrici devono armonizzarsi: un solo elemento non è sufficiente. Un’Europa siffatta può e deve guardare alla sponda sud del Mediterraneo che resta – culturalmente e per tradizione politica – non europea.
      La mia idea è: l’Europa arriva fin dove le somiglianze sono più delle differenze.
      Ecco, questa è la mia opinione, poi magari ho detto una marea di scempiaggini…

      Matteo

  2. Magari per qualcuno lo sono ma, condividendole, io non le trovo certo scempiaggini.
    Soltanto che, nel momento in cui prevalesse una linea politica europea simile all’idea che hai espresso, probabilmente si svuoterebbe il concetto di Unione “Europea” e, se molto allargata, suonerebbe quasi ridicolo/assurdo. Forse dal sapore anche un pò neo-colonialista. Il bello è che nel perdere l’aggettivo europeo in un (lontano) futuro non ci vedo niente di male, anzi. Cambierebbero certo i presupposti identitari e quindi, in un certo senso, i presupposti “filosofici”. Ma si potrebbe tendere verso una federazione di popoli nella visione kantiana dove, oltretutto, la somiglianza non sarebbe più criterio inclusivo ma, anzi, lo sarebbe la diversità. Perchè l’interesse per la convivenza pacifica spingerebbe a includere, per confrontarsi senza scontrarsi, ciò che prima era fuori dal confine.
    Ma questa è già fantascienza…forse.

  3. Ok, opinione interessante e molto ben argomentata. Mi pare però (parere personalissimo, ci mancherebbe altro) che nel tema si pecchi troppo di idealismo. Per carità, bellissimo sarebbe se l’Europa fosse in grado di unire con un paio di trattati di annessione e due allegati…Però, nella realtà dei fatti, già scontiamo problemi non da poco.
    Pensiamo a Bulgaria e Romania, con cui ora si sta facendo una figura veramente ridicola. Perché? Perché sono soci a mezzo servizio, prima li si è fatti entrare poi li si lascia fuori da Schengen per problemucci vari di corruzione e criminalità organizzata. Ma pensarci prima?
    Secondo punto, parlando di differenze culturali. Abbiamo problemi a mettere insieme visione “continentale” e visione britannica di tutto il sistema-UE. Cosa vorrebbe dire ammettere un paese che, oltre a divenire il più popoloso (con quanto questo comporta), è comunque religiosamente, geograficamente e, sì, culturalmente diverso? Un conto è parlare di Melilla, o anche della Romania (che con tutto il rispetto, a peso economico e geopolitico è ben altra cosa), un conto di un paese di 100 milioni di persone con giustissime ambizioni egemoniche…
    Terzo punto, l’immigrazione, Andiamo a vedere cosa è successo in Grecia, dove 16 km di confine hanno causato l’ambaradan che tutti abbiamo sotto gli occhi. Ci sarebbe da rivedere più o meno tutta la normativa in merito, con le complicazioni di cui sopra. Possiamo permettercelo ora?
    Quarto punto, politiche economiche. Se non si taglia il bilancio europeo, certuni non lo approvano. Vittima sacrificale pare essere la Politica Agricola Comune, e forse i Fondi per le aree meno sviluppate. Facendo entrare un paese che, a parte Istanbul e poco altro, è essenzialmente agricolo e non proprio a un livello “europeo” di ricchezza, per usare un eufemismo?
    Quinto punto, ragionando di solo idealismo. Questione curda, genocidio armeno (!!!!!), occupazione di un Paese parte, lui sì, della nostra Unione, democrazia e libertà di parola non proprio effervescenti….
    L’idealismo è una cosa bellissima, ma l’idealismo da solo può fare gran danni. Ora, io mi chiedo, alla luce di quanto sopra, non è meglio che certe questioni vengano risolte prima, e non dopo, aver compiuto una simile apertura?
    E sono tutto fuorché un conservatore o un accanito sostenitore delle radici cristiane europee.
    Piccoli spunti di discussione 🙂

    • Daniele, credo che le tue osservazioni siano tutte calzanti. Il nostro era un discorso più ideale, appunto, che parlava di una Europa e una Turchia per quello che dovrebbero essere. Lo scarto tra idea e fatti è sensibile, questo è certo. Quindi il tuo commento è un ideale completamento dell’articolo, e ti ringrazio. A rileggerci!
      Matteo

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