TURCHIA: L’impasse della politica estera “neo-ottomana”

Quella che viene definita “politica neo-ottomana” nella Turchia del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkinma Partisi: AKP) nasce come reazione all’offensiva degli ambienti laici e kemalisti contro i governi islamici turchi dal 2003 all’estate del 2008. In quel momento si può dire che l’AKP si è consolidato definitivamente al potere, dopo essersi assicurato una netta vittoria alle elezioni legislative del 2007 (in cui l’AKP ottenne nuovamente la maggioranza assoluta) e le presidenziali, in seguito alle quali Abdullah Gül diventò il primo presidente islamico della Repubblica turca.

L’AKP al potere impose una controffensiva nei confronti dell’ establishment kemalista laico, i cui principali bastioni erano le forze armate, la magistratura, la diplomazia e, in misura minore, alcuni partiti politici, come lo storico Partito Repubblicano del Popolo (Cumhuriyet Halk PartisiCHP) e l’ultranazionalista MHP (Milliyetçi Hareket Partisi, Partito del Movimento Nazionalista).
Per quanto riguarda la diplomazia, la controffensiva del governo dell’AKP cominciò a manifestarsi già nel 2007, quando in ambito internazionale acquisì sempre più notorietà il nome di Ahmed Davutoğlu, la mente della diplomazia turca (e che sarebbe diventato ministro degli esteri nel 2009). Davutoğlu, autore del libro Profondità Strategica (“Stratejik Derinlik”, 2001), proponeva una nuova diplomazia turca centrata sul fattore islamico e sul passato ottomano della Turchia, disposta a svolgere nuovamente un ruolo di potenza regionale. Ahmed Davutoğlu salì alla ribalta internazionale soprattutto per il suo ruolo di mediatore nella “shuttle diplomacy” durante l’offensiva israeliana a Gaza durante l’inverno del 2008-2009. Nel maggio del 2009 Davutoğlu fu designato ministro degli esteri. Nel 2010 vinse il settimo posto nel pantheon dei “migliori pensatori globali” secondo la rivista Foreign Policy, “per essere la mente che sta dietro il risveglio globale della Turchia”.

In realtà, l’operato di Davutoğlu ha contribuito attivamente alla dissoluzione dell’eredità politica kemalista in Turchia, perché proclamava un intervento diretto del paese nelle regioni adiacenti ai suoi confini. Anche se l’idea ufficiale era di limitarsi alla funzione mediatrice, proclamando la dottrina neutralista “zero problemi con i vicini“, la nuova politica estera turca è stata di fatto interventista. Anche se, inizialmente, non lo sembrava tanto. La definizione di “neo-ottomanismo”, infatti, proveniva dall’opposizione in senso dispregiativo. Il nuovo orientamento della diplomazia turca, d’altronde, sembrava rifarsi ben poco alla storia dell’Impero Ottomano. Innanzitutto, perché si estendeva ben oltre il suo ambito territoriale, quello delle ex province arabe o balcaniche appartenenti al vecchio impero. L’attività “neo-ottomana” raggiungeva l’Africa orientale, i Caraibi, le Filippine. Ankara si schierava con gli uiguri del Sinkiang e manteneva relazioni molto attive con il Pakistan, oltre ad aggiudicarsi la maggior parte delle opere appaltate dalla NATO in Afghanistan. Inoltre, i rapporti stabiliti con i paesi arabi “ex-ottomani” non si sono articolati in base ai ricordi del glorioso impero, ma sui reciproci vantaggi commerciali o geopolitici del XXI secolo. Questo era il caso delle relazioni con la Siria di Bashar al-Assad: fino alle proteste del 2011, Ankara mantenne un’alleanza molto stretta con il paese arabo il cui regime non aveva nulla di islamista. In ogni caso, si racconta che a Damasco nessun tipo di affare si poteva stringere senza la mediazione dei turchi.

La politica estera turca si è orientata in senso islamico per diversi motivi:

1) per dinamiche politiche interne: la linea di Davutoğlu erodeva le basi kemaliste del sistema, sia in termini di strategia estera (sempre più distante dall’eredità del fondatore della repubblica turca Kemal Ataturk), sia per le trasformazioni interne dello stesso corpo diplomatico turco, al servizio di nuovi orientamenti;

2) per l’influenza di ambienti e piattaforme politiche come la Millî Görüş (Visione Nazionale), che dal 1969 riunisce settori dell’emigrazione turca in Europa, o il movimento di Fethullah Gülen, di carattere islamico ma allo stesso tempo pan-turco, con la sua rete di fondazioni di interesse sociale, media e centri d’insegnamento che si estende in Asia centrale e persino in paesi dell’America Latina, Filippine o Stati Uniti;

3) per lo scontro diplomatico apertosi tra Turchia e Israele dopo la condanna turca all’Operazione Piombo Fuso, lanciata dall’esercito israeliano contro Gaza nel dicembre 2008. La disputa esplose con la spettacolare lite tra Erdogan e Shimon Peres a Davos, davanti alle telecamere, nel gennaio 2009. Gli attriti diplomatici cresceranno fino a un nuovo culmine, con l’incidente dell’assalto israeliano alla nave Mavi Marmara, parte della Freedom Flotilla, il 31 Maggio 2010;

4) la primavera araba, da gennaio 2011, ha provocato un’ improvvisa accelerazione della politica “neo-ottomana”, che già si mostrava come una distorsione del programma originario di Davutoğlu, in direzione più opportunista e islamico-nazionale, fino a creare apertamente un “modello turco”. Il problema è che questa deriva potrebbe condurre la nuova politica estera turca a una palude di contraddizioni pericolose.

L’inizio della primavera araba in Tunisia, Egitto e Libia sembra un’occasione d’oro per il “modello turco”. Il regime di Ankara presenta un modello di islamismo moderato e ravvivato da certo prestigio perché sostenuto da Unione europea e Stati Uniti. Va ricordato che il governo dell’AKP ha goduto dell’appoggio di UE e USA proprio durante il periodo 2007-2008, quello delle pressioni politiche dell’ establishment laico e kemalista. In effetti, il neoliberalismo islamico imposto dal governo dell’AKP sembra coincidere con la filosofia politico-economica delle nuove leadership del Maghreb, descritto da Vali Nasr nelle sue opere sul neoliberalismo islamico. Così, inizialmente i nuovi leader islamici tunisini (Rachid Ghannouchi è amico personale di Davutoğlu) – ed egiziani (i Fratelli Musulmani), hanno mostrato un forte interesse per recarsi a Istanbul ed incontrare i “fratelli” dell’ AKP. Quanto alla Libia, la Turchia è coinvolta, con il Qatar e l’Arabia Saudita, nelle operazioni militari nel paese. Erdogan visitò Tripoli nel settembre 2011, per mettere in chiaro che Ankara voleva avere un ruolo da protagonista nella transizione post-Gheddafi della ex provincia ottomana.

Con l’intervento turco in Libia, è evidente che Erdoğan allinea dunque il “modello turco” con la NATO. La Turchia fa parte dell’ Alleanza Atlantica dal 1954. La visita di Erdogan a Tripoli in nome del “modello turco” (ma pochi giorni dopo le visite di Sarkozy e Cameron) dimostra che la Turchia non agisce da sola, ma come parte di (o dipendendo da) grandi organizzazioni internazionali. E questo comporta un costo politico: per di più, la Turchia è nella NATO, ma non è riuscita a vincere la battaglia per l’accesso all’UE. Cosa che, peraltro, contribuisce a rafforzare l’immagine di “potenza indipendente” che il modello turco cerca di offrire. La situazione si è fatta ancora più contorta quando la Turchia ha ripetuto l’operazione “interventista” vista in Libia in un altro contesto, quello del conflitto in Siria, dove il coinvolgimento turco è anzi più esplicito. E lì crescono le contraddizioni:

1) nel 2009, Erdoğan si era scontrato con Israele per la questione palestinese, ma anche per la Siria, e per il suo all’epoca alleato Bashar al Assad. Nel 2011 Erdoğan rompe con Assad, ma senza riprendere il rapporto con l’ex alleato israeliano. Anzi, Tel Aviv guarda con grande sospetto a tutti quelli che intervengono nel proprio “cortile” siriano, a cominciare dalla stessa Turchia;

2) la Turchia non agisce da sola in Siria. Sul proprio territorio, vicino al confine, c’è la base di İncirlik, della Forza Aerea USA. Pertanto Ankara non può fare quello che vuole in Siria. In realtà, non ha nemmeno la capacità militare per intervenire autonomamente. Uccidere dei siriani, anche se si tratta di sostenitori di Bashar al Assad, distruggererebbe la loro immagine nei paesi arabi;

3) a peggiorare le cose, i curdi hanno dato una svolta alla guerra civile in Siria nel luglio 2012, quando hanno preso il controllo di un certo numero di località nel nord e nel nord-est della Siria lungo il confine con la Turchia. Questo complica notevolmente la posizione di Ankara, perché il suo intervento in Siria complicherebbe la sua lotta contro il PKK, nonché la posizione della stessa NATO. Il PYD – Partito di Unione Democratica, curdo-siriano – è, di fatto, una costola del PKK, e i primi potrebbero così incoraggiare i secondi nella lotta contro le forze armate turche. Peraltro, non è chiaro chi sostiene il PYD e quali vantaggi geo-strategici sono in gioco;

4) il presidente egiziano Mohammed Morsi si è appropriato di alcuni aspetti del modello turco per il proprio vantaggio politico. Durante la recente riedizione del conflitto Israele-Gaza (novembre 2012) Mursi si è erto a mediatore tra Hamas, Washington e Tel Aviv. Benché non sia rimasto escluso dalle manovre che hanno portato all’accordo di tregua, Davutoğlu non è stato al centro della scena come nel 2009. Mursi, che sembra seguire la stessa direzione presa dall’AKP tra il 2003 e il 2008, sebbene a un ritmo molto più veloce, sfrutta la manovra diplomatica vincente per affermare il proprio potere interno, lasciare il potere giudiziario fuori gioco e contrastare nelle piazze i difensori del regime laico.

In conclusione, la politica estera di prestigio fin qui condotta dal ministro Davutoğlu sembra trovarsi in un vicolo cieco. E, quindi, lo stesso vale per l’intero modello turco. Evidentemente, questo può avere conseguenze nella politica interna e rappresentare una caduta di consensi per il governo di Erdoğan. Tuttavia, tutte le possibilità sono ancora aperte: nel complesso puzzle dell’area mediorientale e nordafricana (MENA), i pezzi di Palestina, Israele, Libano, Egitto, Turchia ed Iran devono ancora comporsi l’uno con l’altro.

(*) Professore di Storia dell’Europa orientale e della Turchia presso l’Università Autonoma di Barcellona (UAB). Articolo pubblicato su Eurasian Hub

Chi è Alfredo Sasso

Dottore di ricerca in storia contemporanea dei Balcani all'Università Autonoma di Barcellona (UAB); assegnista all'Università di Rijeka (CAS-UNIRI), è redattore di East Journal dal 2011 e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Attualmente è presidente dell'Associazione Most attraverso cui coordina e promuove le attività off-line del progetto East Journal.

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