TURCHIA: Erdogan si è sparato sul piede

Sono giorni di scontri e violenza in Turchia. Non solo ad Istanbul, in quella Piazza Taksim dove tutto è incominciato la notte di venerdì 30 maggio. Ma anche la super-kemalista Izmir e le sicuramente meno sospettabili Ankara, roccaforte governativa, e la religiosissima Konya. Giorni di proteste, di repressioni, di feriti, addirittura morti (tre al momento in cui scrivo) e in generale di una tensione sociale e politica che nel paese non si respirava da decenni. Ciò nonostante non è una ‘primavera turca’ (come ha fatto la Stampa): non fuorviate il lettore italiano con soundbite della serie ‘Islam contro democrazia dei diritti’, come titolava il Sole24Ore, come se Islam e democrazia non potessero stare insieme. La Turchia, nel bene e nel male, non è l’Egitto o la Siria, né il Marocco o lo Giordania, né lo Yemen o il Bahrain. La Turchia è una democrazia parlamentare, un sistema multipartitico con elezioni che da molti anni ormai sono riconosciute come free and fair. Piazza Taksim non è Piazza Tahrir.

 Una democrazia contraddittoria

Certo ciò non significa che la democrazia turca non presenti profonde contraddizioni, peccati originali risalenti agli albori della Repubblica e problemi concreti ed attuali. La maggioranza delle persone scese in strada a protestare in questi giorni non chiedono la Democrazia con la d maiuscola; chiedono più democrazia, ovvero una democrazia più partecipata e meno arrogante. Nessuno di coloro che era in piazza, dai semplici ambientalisti ai falchi di sinistra, chiedeva un cambio di regime; ma piuttosto un cambio nel metodo della pratica del regime democratico adottato soprattutto dall’attuale primo ministro Recep Tayyip Erdogan. E il fatto che ci fossero anche molti sostenitori e votanti di Erdogan e del suo partito Giustizia e Sviluppo (AK) la dice lunga sulla natura di questo week-end di fuoco alla turca.

Chi sono i manifestanti?

Come già sottolineato dagli osservatori più attenti, le proteste sono cominciate prive di un connotato fortemente ideologico e/o strettamente connesso ad un pensiero politico specifico. Tant’è che nessun partito ha collaborato all’organizzazione degli eventi e nelle prime ore di manifestazione persino mancavano bandiere di questo o quel colore politico. La gente di Istanbul non voleva, e continua a non volere, che il piccolo polmone verde di Gezi diventi vittima dell’ennesima cementificazione selvaggia, ingollata dall’ennesimo centro commerciale frutto di una politica urbanistica che sta asfaltando quasi tutti i pochi spazi verdi rimasti di una megalopoli che già soffre di aria malsana.

La reazione furibonda, all’apparenza incontrollata della polizia (questo sì un problema che, dalle manifestazioni del Primo Maggio ai derby calcistici di Istanbul, caratterizza da sempre le forze dell’ordine turche) ha esacerbato gli animi. Tra la gente per strada, il collegamento repressione violenta-governo è stato quasi immediato: le dichiarazioni improvvide di Erdogan ed un pizzico di strumentalizzazione dell’opposizione hanno fatto il resto. Ed ecco che è scoppiata l’intolleranza verso un primo ministro che forte del suo (poco contestabile) consenso elettorale ha assunto un atteggiamento altezzoso e approvato leggi ambigue con motivazioni al limite del ridicolo. Una su tutte le restrizioni su vendita e consumo di alcolici a suo dire a tutela della salute dei cittadini turchi, che però possono consolarsi comprando pacchetti di sigarette (queste evidentemente un toccasana) al costo di una bevanda gassata d’importazione.

Gli scontri di questi giorni sono frutto di dinamiche sociali, politiche e culturali di lungo corso. E molto probabilmente saranno interpretabili solo tra molto tempo. Tali eventi pongono tanti ed importanti quesiti sulla Turchia, sul suo governo, sul suo sistema politico e partitico e non in ultimo sulla sua variegata popolazione. E le conseguenze di questi giorni non tarderanno a farsi sentire. A mio parere, già ora si può notare il delinearsi di prospettive che indeboliranno la Turchia al suo interno e dall’interno verso l’esterno.

La democrazia non è quella di Erdogan

È evidente che non si può concepire una democrazia nel modo in cui è stata descritta da Erdogan: cioè molto sbrigativamente, con un si vota ogni quattro anni se avete qualcosa da dire fatelo in quell’occasione e non andando a fare danni in strada. Una visione sicuramente restrittiva e poco partecipata della forma democratica di gestione della res publica. Non a caso il Presidente della Repubblica e compagno di partito Abdullah Gul ha cercato di correre ai ripari, con dichiarazioni più morbide, più considerevoli delle richieste di coloro che in questi giorni sono stati asfissiati da un uso eccessivo di lacrimogeni (immediatamente condannate da Human Rights Watch) ed innaffiati con violenza dagli idranti della polizia. A conferma di una divisione, se non addirittura spaccatura, all’interno del partito di governo tra Erdogan e Gul (più legato al movimento Fetullah Gulen da tempo pubblicamente in rotta con Erdogan) di cui si parla da parecchio tempo ormai e che, se esasperata da azioni eclatanti come quelle di questi giorni, potrebbe sfociare forse in qualcosa di più di una semplice divergenza partitica, soprattutto in vista delle elezioni presidenziali del 2014 che potrebbero così contrapporre in maniera chiara ed ufficiale i due vecchi amici e compagni di partito Erdogan e Gul.

 Una democrazia che non rappresenta

È altrettanto evidente che il maggiore partito di opposizione, il CHP, non è in grado di raccogliere il consenso e convogliarlo all’interno dei canali democratici. E questa è forse una delle maggiori e più importanti sorprese di queste giornate tumultuose: e cioè che la società civile ha reclamato e saputo esercitare un diritto di parola e di azione inaspettato, forse dagli stessi protagonisti scesi in piazza in queste ore. Tante forze politiche e sociali del paese non si sentono rappresentate in questo parlamento e pertanto esprimono le loro opinioni e sostengono le loro campagne nelle piazze e nelle strade, dimostrandosi così una voce forte ed alternativa alle forme partito. Niente di male se non fosse che tutto ciò può purtroppo trasformarsi rapidamente in violenze forsennate come dimostrato dagli scontri del fine settimana. In un paese che ha visto già quattro colpi di stato in meno di cento anni, lasciare che il dissenso politico rimanga fuori dalle sedi democratiche e si trasformi in una dialettica di violenza tra stato e anti-stato è un rischio davvero troppo alto da correre. Le conseguenze potrebbe essere ancora più traumatiche. Ovvero?

 A rischio il dialogo con il Pkk curdo

Ovvero, il processo di pace tra governo e Pkk potrebbe essere messo a repentaglio. I guerriglieri curdi si stanno finalmente ritirando; le violenze, almeno temporaneamente, sono cessate. Dopo tanti anni lo storico leader del movimento dei lavoratori curdi del Pkk, Abdullah Ocalan, unico ospite di un carcere mantenuto apposta per lui su di un’isoletta nel Mar di Marmara, ha raggiunto un accordo di massima con Erdogan per riportare nella normalità il sud-est del paese ed entrambi sono in procinto di ottenere qualcosa di drammaticamente necessario, urgente ed assolutamente impensabile fino a qualche anno fa. Mandare tutto a monte significherebbe gettare al vento un occasione che potrebbe ripresentarsi tra altri cento anni e altre 40 mila vittime. Non è un caso che nel pomeriggio di lunedì 3 giugno si siano già registrati i primi scontri tra forze armate e uomini del Pkk. E non è un caso che proprio il sud-est del paese sia quello dove non si sono registrate proteste: insomma è chiaro che almeno ufficialmente e nelle zone maggiormente a rischio e più simboliche della questione curda, i Curdi ne vogliono rimanere fuori, consapevoli che un loro coinvolgimento formale potrebbe avere ricadute pesanti sugli argomenti per i quali si battono da sempre.

 La nuova Costituzione rischia di slittare

Altra posta in gioco che rischia di saltare, e strettamente connessa al processo di pace col Pkk, è la stesura di una nuova costituzione. Necessaria per introdurre una maggiore tutela delle tante minoranze presenti nel paese (siano esse etniche, linguistiche o religiose), attraverso una modifica in particolare della definizione del concetto di cittadino e di cittadinanza, tale riforma che richiede una maggioranza qualificata. Di per sé quindi, il raggiungimento di un accordo su una nuova bozza costituzionale è già complicato. Ne consegue che un clima di esasperata tensione sociale, con le opposizioni parlamentari pronte a non fare sconti al governo ed il paese in stato di sommossa sarebbe impensabile trovare un’armonia istituzionale e sociale per una nuova fase costituente.

Ed è forse proprio qui che sta la soluzione. La nuova costituzione sta tanto a cuore al PM Erdogan non già per la possibilità di entrare nella storia come colui che risolse l’annoso problema curdo, ma quanto per la modifica in senso presidenziale del sistema politico che darebbe così la possibilità ad Erdogan di diventare il primo Presidente eletto della Repubblica Turca ed allungare il suo record di governo con un ulteriore quarto mandato. Come lui nessuno mai, nemmeno Ataturk.

Quale politica estera con Erdogan in crisi?

Ulteriori ricadute possibili si trovano sul fronte esterno. La Turchia si trova letteralmente in prima linea in Siria e non può permettersi di alienarsi il supporto e l’aiuto di attori esterni come gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Infatti, nonostante sia molto chiaro che la politica adottata dal ministro degli Esteri turco Davutoglu in Siria abbia ampiamente fallito, è innegabile che la Turchia stia pagando sulla propria pelle la guerra civile in Siria. La riluttanza di Obama e degli Usa di intervenire in qualsivoglia maniera (per esempio istituendo una No Fly Zone sul nord del paese come ripetutamente chiesto da Ankara) e il divieto di fornire armi agli insorti siriani deciso dall’Ue, hanno sicuramente contribuito a lasciare il cosiddetto cerino in mano ad Ankara. Il risultato più concreto sono gli ufficiali 100 mila rifugiati in territorio turco (stime ufficiose turche ne contano molti di più) che stanno creando forti tensioni sociali nel sud-est del paese. Attentati dinamitardi di stampo terroristico e la caduta di missili siriani nelle città e nei villaggi di confine hanno provocato morti e feriti ed hanno ulteriormente inasprito l’umore della popolazione locale, inferocita con il governo di Erdogan e le sue politiche di pieno supporto ai gruppi insorti contro il governo siriano di Bashar al-Assad.

Ora, nel caso in cui il governo turco dovesse prestare il fianco ai suoi maggiori alleati a causa della repressione violente delle manifestazioni, la sua solitudine politica diventerebbe ancora più accentuata e la possibilità di trovare un supporto alla gestione della complicata questione siriana si farebbe ancora più remoto. A questo bisogna aggiungere che in molte città europee, dalla Germania all’Olanda dove gli immigrati turchi sono moltissimi, ma anche in Italia dove invece l’immigrazione turca è sicuramente più modesta, tantissimi si sono riuniti a sostegno delle proteste di Istanbul. Una segnale che i rispettivi governi europei non potrebbe permettersi di ignorare, in caso di aperto supporto alle richieste di maggiore intervento in Siria da parte delle Turchia, al fine di non alimentare possibili escalation anche sul proprio territorio.

 Erdogan si è sparato sul piede

È quindi evidente che Erdogan si è ‘sparato sul piede’, come scritto sul maggiore quotidiano laico del paese Hurriyet. D’altra parte, è anche vero che non saranno certo queste proteste, per quanto vibranti ed estese, a minare il risultato del suo partito nelle prossime elezioni locali e forse anche in quelle nazionali del 2014. Tuttavia è innegabile che questa è la prima vera contestazione di massa dal 2002 che sta mettendo in serio imbarazzo non solo Erdogan ma tutto l’AKP, sia in Turchia sia all’estero. Dovessero queste proteste riuscire a collegare e quindi rendere di maggiore impatto gli errori commessi dai vari governi AKP nel corso degli anni, dalla legge sugli alcolici, agli errori in Siria, dalla urbanizzazione selvaggia (leggi terzo aeroporto, terzo ponte sul Bosforo, la super moschea sulla collina di Camlica, ecc…), al peggioramento delle relazioni con Israele o alla mancata tanto sbandierata normalizzazione delle relazioni con l’Armenia, e ad aggregarle unitamente alla presa di coscienza da parte del maggiore partito di opposizione CHP della necessità di un un rinnovamento identitario e programmatico, allora sì che potrebbero essere gettate le basi per una sfida seria e di lungo periodo allo strapotere dell’attuale compagine di governo. Diversamente, Erdogan e il suo AKP continueranno a dominare l’agone politico forti degli indubbi risultati economici e della comunque innegabile stabilità politica fornita al paese nell’ultimo decennio.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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