Erdogan corteggia i musulmani di Bosnia, riesplode la questione nazionale

La questione nazionale bosniaca è tornata all’ordine del giorno dopo la visita di Bakir Izetbegovic, presidente bosniaco, all’omologo turco Erdogan. Occasione della visita è stato l’anniversario della morte di Alija Izetbegovic, padre dell’attuale presidente e pater patriae per i bosgnacchi. In quell’occasione il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ci ha tenuto a ricordare come l’Unione Europea sia morta durante la guerra bosniaca del 1992-95. L’affermazione è, abbastanza oggettivamente, reale e realistica: la debolezza dell’intervento della comunità internazionale nel conflitto successivo alla dissoluzione della Jugoslavia sostanzia quanto suggerito da Erdogan. In un paese in cui gli accordi di Dayton del 1995 hanno lasciato profonde fratture, esacerbando, anche a livello psicologico, le già presenti divisioni etniche, l’equilibrio politico è assai fragile: è sufficiente una dichiarazione, un gesto, una fotografia per dar fuoco alle polveri del dissenso, del proclama, -sovente fine a stesso-, della presa di posizione virile, sostenuta, talvolta, da una consapevolezza dell’impossibilità di concretizzare le proprie parole o slogan. Allo stesso tempo, il processo di avvicinamento proprio all’Unione Europea del paese balcanico trasforma il concetto in una pericolosa insinuazione, quasi che la Turchia consigli alla Bosnia di allontanarsi dall’Unione, che, nel momento di assoluto bisogno, non è stata in grado di proteggere una popolazione che, come riportato in numerosi libri, articoli e saggi pubblicati alla luce delle violenze in terra bosniaca, si percepiva totalmente e senza dubbio alcuno europea.

Solidarietà musulmana

La “chiamata” della Turchia alla Bosnia è solo uno degli esempi di uno scivolamento nella direzione di una ricostruzione dell’identità non più attraverso una chiave interpretativa che riconosca le comuni radici europee ma che sottolinei con sempre più vigore la ragione d’essere dei bosgnacchi come musulmani. Non è un caso che, nel passato mese di settembre, dei convogli di aiuti siano partiti verso la Siria, come riportato dai media locali, in nome della stessa natura di musulmani sunniti e della solidarietà che il mondo islamico aveva dimostrato negli anni Novanta al governo Izetbegovic. Questa nuova tendenza di definizione etnica rende la convivenza all’interno della Bosnia un affare alquanto complesso.

A complicare ulteriormente la precaria situazione la segregazione scolastica in atto, che, di fatto, somministra agli studenti una versione della storia, soprattutto recente, diversa a seconda dell’etnia di appartenenza ed alla lingua madre (aprendo la voragine della questione linguistica e dell’utilizzo della lingua come grimaldello del nazionalismo). Alle dichiarazioni di Izetbegovic figlio, che a margine del suo colloquio con Erdogan ha ricordato come il padre avesse lasciato in eredità “politica” la sua terra alla Turchia, in guisa tale che il paese con cui spiritualmente e storicamente la Bosnia ha più affinità nell’area, diventi una sorta di protettore, incaricato di garantire la continuità del lascito delle battaglie di Izetbegovic. Queste ultime sono state quindi lodate da Erdogan che ha colto l’occasione per rammentare all’uditorio l’attualità del messaggio del primo presidente della Bosnia indipendente ed i suoi ripetuti tentativi di assicurare una pace duratura, anche al prezzo di decisioni dolorose o addirittura ingiuste nei confronti della sofferenza del suo popolo oppure in virtù di questa sofferenza, di decisioni che hanno collocato il bene comune al primo posto, piuttosto che il desiderio e la volontà di ottenere una compensazione.

Non nella mia Bosnia

Tra i confini domestici immediate sono giunte le reazioni di stizza, da Milorad Dodik, presidente dall’entità serba di Bosnia, la Republika Srpska, ma anche dai giornali, come Glas Srpske, che senza batter ciglio si sono dissociati dalle parole di Bakir Izetbegovic, ribattendo spostando l’attenzione non sulla Bosnia intera, ma solo nel territorio della Federazione. “Ecco”, sembravano affermare, “quella è la Bosnia di cui state elogiando il leader, non questa, non la RS, che in questa figura non può e non dovrà mai riconoscersi”.

L’ostilità dimostrata dall’establishment serbo-bosniaco ha prontamente riacceso il dibattito, ben riassunto dalla colonna su Oslobodjenje di Gojko BericCija je Bosna” (Di chi è la Bosnia?), e non è assolutamente fuori luogo il paragone della situazione attuale al film del regista bosniaco Danis Tanovic “Terra di Nessuno”. La Bosnia oggi assomiglia ad uno dei personaggi del film, impossibilitato a muoversi perché bloccato da una mina che esploderà al minimo movimento e l’indifferenza alternata a momenti di profonda compassione da parte del continente internazionale presente sul campo è lo stesso atteggiamento che, da un lato la Turchia, ma dall’altro la Russia, grazie ai frequenti intrecci diplomatici che interessano la RS (non ultima, la visita di del presidente Vladimir Putin al suo omologo Dodik quest’anno, la sesta in tre anni,) sfruttano per soddisfare le loro necessità geopolitiche, spesso celando le intenzioni dietro la maschera della tutela o della fornitura di consulenze. Si vedano, in questo campo, le ripetute preoccupazioni del governo del Cremlino nei confronti del numero (circa 330, secondo le ultime stime) di foreign fighters che si sono recati a combattere sotto la bandiera dello Stato Islamico in Siria e Levante partendo dall’area balcanica. Oppure, ancora, il richiamo alle comuni radici ortodosse le quali, già durante la guerra avevano trovato terreno fertile, portando un buon numero di volontari di fede ortodossa a combattere in Bosnia, inquadrati sotto il comando dell’esercito serbo-bosniaco (si ricordi il caso dei volontari greci).

L’orizzonte si allontana sempre

Questa continua destabilizzazione del paese trasforma il conferimento dello status di candidato alla Bosnia in una probabilità remota, nonostante l’ottimismo dimostrato nelle scorse settimane dal presidente di turno, il croato Dragan Covic, a margine degli incontri avuti a Bruxelles con il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk. Si tratta, purtroppo, di un rischio che l’Europa non può permettersi di correre, visto che una aggravata frammentazione del contesto bosniaco nel contesto di un conflitto fondamentalmente congelato potrebbe rafforzare lo scetticismo, peraltro già presente, nei confronti dell’adesione all’Unione Europea, consegnando il paese e le sue fragili istituzioni nelle braccia di altri, più insidiosi, attori geopolitici.

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