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STORIA: La relazione travagliata dei tatari di Crimea con la Russia

Oggi i tatari di Crimea, il popolo autoctono della penisola del mar Nero annessa un anno fa alla Russia, non dormono sonni tranquilli. Il regime moscovita ha esiliato i loro rappresentanti eletti (Mustafa Cemilev), chiuso i loro mezzi d’informazione, represso ogni manifestazione culturale subodorata di “separatismo”. A complicare le relazioni dei tatari con Mosca non c’è solo la deportazione di massa in Asia centrale subita dal popolo tataro dopo il 1945. Sono già la prima annessione del 1783 alla Russia zarista, e le purghe e deportazioni staliniane degli anni ’30, ad appesantire il fardello della memoria storica tra la minoranza autoctona di Crimea e i governanti moscoviti.

Atto I: L’annessione zarista

Il 7 aprile 1783 la zarina Caterina II, forte dell’alleanza all’Austria asburgica, proclamava l’annessione del Khanato di Crimea all’Impero Russo. Il pretesto fu quello di salvare la popolazione della penisola da un cattivo governo e dall’ingerenza ottomana. In base ai termini del trattato di Küçük Kaynarca, firmato a conclusione della guerra russo-ottomana che Istanbul aveva perso, la Crimea era stata ceduta e resa nominalmente indipendente, ossia sotto influenza russa. Il regime fantoccio del Khan Şahin Giray, sostenuto da Mosca, si era dimostrato impopolare tra i tatari, per le sue politiche volte ad allontanare la penisola dalla Sublime Porta ottomana. L’instabilità conseguente era servita da pretesto per l’intervento militare russo

Secondo il conte Alexander Bezborodko, consigliere di Caterina II, Istanbul aveva “compiuto numerosi e perfidi tentativi di suscitare una ribellione in Crimea… Il nostro solo desiderio è stato di riportare la pace in Crimea… e sia stati alla fine forzati dai Turchi ad annettere l’area.” Questo tipo di pretesto, che suona relativamente familiare nella situazione contemporanea, era peraltro senza fondamento: l’Impero Ottomano non aveva avuto alcun ruolo nella rivolta. L’indignazione del Sultano per il furto territoriale non aveva ricevuto supporto in Occidente, e anche la Francia lo aveva consigliato di accettare il fatto compiuto – ciò che avvenne con il successivo Trattato di Costantinopoli, con cui Istanbul cedeva a Mosca la Crimea con i vicini Kuban e Taman. L’annessione provocò la prima ondata di emigrazione dei tatari di Crimea verso i territori ottomani. Entro la fine del 18° secolo, in più di 100.000 avevano lasciato la penisola, segnando l’inizio della fine della secolare cultura tatara in Crimea.

‘Fortified by the Austrian alliance, Catherine [the Great] proceeded toward the realisation of the Grand Plan. She began in the Crimea where, in complete violation of her pledges at Kuchuk Kainarji, she applied the same tactics that had proved successful in Poland. She encouraged a revolt against the reigning khan and installed in his place a pretender who faithfully executed her orders. When the Tatar population rose in protest she proclaimed the annexation of the country with professions of acting only to deliver its people from misgovernment. This highhanded robbery excited the greatest indignation in Constantinople. But the Turks received no support from any quarter. Even France advised acceptance of the fait accompli. The inevitable outcome was the Treaty of Constantinople (1783) ceding to Russia the Crimean Peninsula with the neighbouring Kuban area and the Taman Peninsula.’

– L.S. Stavrianos, The Balkans since 1453, Hurst and Company, London, 1958, 2000, pp. 193-194

Atto II: Le purghe e deportazioni staliniane

L’Holodomor, la grande carestia artificiale che colpì l’Ucraina tra il 1930 e il 1933 per volere di Stalin, ebbe effetti anche in Crimea. Il pretesto stava nella volontà staliniana di reprimere le idee di “tatarizzazione” promosse da Veli Ibrahimov, leader comunista della repubblica autonoma di Crimea fino al 1928.

Negli anni ’20 Ibrahimov, lui stesso tataro, aveva promosso la cultura tatara per consolidare il potere bolscevico nella penisola. Dal 1927 Ibrahimov aveva iniziato a promuovere apertamente l’insediamento dei tatari nel nord della penisola, reclamandola per intero come paese tataro. Ciò tuttavia si contrapponeva ai piani di Stalin.

All’inizio del 1928, Ibrahim protestò apertamente contro l’idea di Stalin di deportare forzatamente e reinsediare i bielorussi in Crimea. Per la sua opposizione al leader sovietico, Ibrahimov venne arrestato e l’8 maggio 1928 venne giustiziato dopo un processo-farsa per “nazionalismo borghese”. A partire da tale data, la NKVD prese controllo della Crimea, con l’intento di sterminare ogni comunista locale e ogni membro dell’intelligentsia sospettato di “Ibrahimovismo”. In pratica ciò comportò l’assassinio dei sospettati di “attività kulake”, e la deportazione di massa dei tatari in Siberia.

Secondo il racconto di un testimone oculare russo, “interi villaggi di contadini crimeani vennero liquidati. Migliaia di persone vennero raccolte dietro i fili spinati dei campi di deportazione. Persone che erano cresciute in un clima temperato e mediterraneo, e che non avevano mai prima di allora lasciato le proprie native coste e montagne, si trovarono trapiantate nella taiga e nella tundra, e iniziarono a morire sin dai primi momenti. Non si trattava dell’applicazione di misure di massa, ma della distruzione fisica, la distruzione insensata e senza pietà di un intero popolo“.

In aggiunta, dietro pretesto di “combattere il nazionalismo borghese”, venne introdotta la proprietà agricola collettiva. Con la dipartita dei migliori contadini, uccisi come kulaki, venne la carestia. Tra questo genocidio, e un’altra carestia che aveva colpito la Crimea nel 1921, metà della popolazione tatara era stata uccisa, deportata, o era emigrata. 

Atto III: La deportazione totale dei tatari in Asia centrale

La Crimea era rimasta sotto il controllo nazista tra il settembre ’42 e l’ottobre ’43, parte del Reichskommissariat Ukraine come Teilbezirk Taurien. Nel 1944, sotto il pretesto della supposta collaborazione della popolazione tatara con il regime d’occupazione nazista, il governo sovietico su ordine di Stalin e Beria organizzò come punizione collettiva la deportazione totale del popolo tataro dalla Crimea.

La deportazione, conosciuta come Sürgünlik in tataro, colpì più di 230.000 persone, per la maggior parte reinsediati in Uzbekistan. Questi includevano l’intera popolazione dei tatari di Crimea, al tempo circa un quinto del totale degli abitanti della penisola, oltre a varie minoranze greche e bulgare. In Asia centrale, i tatari vennero reinsediati in campi di lavoro, sovkhoz e kolkhoz e comandati ai lavori più pesanti, oltre ad essere alloggiati in condizioni insalubri. Un gran numero di deportati (più di 100.000 secondo un censimento di attivisti tatari negli anni ’60) morirono di fame o malattia come risultato della deportazione. Secondo Brian Glyn Williams, un terzo dei deportati morì entro i primi cinque anni. La deportazione dei tatari di Crimea in Asia centrale è un caso di pulizia etnica, ed è considerato dai tatari e dai dissidenti sovietici alla stregua di un genocidio.

La collaborazione in senso militare era stata in realtà limitata, con un tatale di 9.225 tatari arruolati nella Legione Tatara e in altri battaglioni tedeschi, ma c’era stato in effetti un livello sorprendente di collaborazione tra il governo d’occupazione e l’amministrazione locale. Ciò era stato dovuto all’atteggiamento conciliante verso la popolazione crimeana (sia tatara sia russa) da parte del Commissario Generale Alfred Frauenfeld, che si era rifiutato di mettere in atto le politiche brutali perseguite dal Reichskommissar Erich Koch, con un conseguente conflitto personale tra i due.

La Repubblica autonoma socialista sovietica di Crimea (ASSR) venne declassata ad oblast russo il 30 giugno 1945, e quindi trasferito all’Ucraina nel 1954. I tatari di Crimea poterono rientrare solo a partire dalla perestrojka, acquisendo ben presto i passaporti dell’Ucraina indipendente, solo a partire dal 1991.

Atto IV ? La Crimea dopo l’occupazione e annessione russa

A partire dall’indipendenza dell’Ucraina, più di 250.000 tatari hanno fatto ritorno nella propria terra d’origine, lottando per ristabilirsi e per reclamare i propri diritti nazionali e culturali di ormai minoranza contro molteplici ostacoli economici e sociali. Nel 1991 venne fondato il Kulturai (Parlamento) come organo rappresentativo dei tatari di Crimea per relazionarsi con il governo centrale ucraino, il governo crimeano, e le organizzazioni internazionali. Il “Mejlis del popolo tataro di Crimea” ne è l’organo esecutivo. Mustafa Cemilev, già dissidente sovietico, ne è il rappresentante sin dagli anni ’90.

Durante il referendum-farsa, Cemilev si trovava ad Ankara da dove, in una conferenza stampa congiunta col ministro degli esteri turco Ahmet Davutoğlu, denunciò l’illegalità internazionale e la manipolazione della consultazione. Il mese successivo, al confine di fatto ucraino-crimeano, gli venne rifiutato l’ingresso e comunicato di essere bandito per 5 anni dal territorio della Federazione Russa, trovandosi così di fatto esiliato nell’Ucraina metropolitana. 

A partire dal referendum-farsa e dall’annessione della Crimea alla Russia putiniana nel 2014, i tatari di Crimea hanno ricominciato a temere per la propria incolumità. Il governo russo si è inizialmente speso per mostrare simpatia verso i tatali, facendo del tataro (sulla carta) la terza lingua ufficiale della regione. Ultimamente, al contrario, ha deciso di revocare le licenze alla televisione tatara ATR e alla radio “Meydan FM”. Secondo alcune intercettazioni, i rappresentanti russi erano stupiti che i media tatari non volessero trasmettere la propaganda di Mosca, “nemmeno a pagamento”. 

Allo stesso tempo, ai tatari rientrati è stato imposto di abbandonare le proprie case di residenza sulla costa a “fini sociali”, per essere reinsediati nell’interno della penisola. In 25 anni, infatti, ai tatari rientrati dall’Asia centrale non sono state restituite le proprietà possedute prima della deportazione, e la minoranza si è quindi trovata spesso a dover occupare case e terreni senza detenerne il titolo legale di proprietà. A partire da ciò, diverse famiglie tatare hanno iniziato a spostarsi verso Kiev e L’viv, per restare sotto giurisdizione ucraina. 

Il 29 marzo 2014, una sessione d’emergenza del Kurultai ha votato in favore della ricerca di una nuova “autonomia etnica e territoriale” per i tatari di Crimea usando mezzi “politici e legali”. La maggioranza degli abitanti della Crimea, tatari inclusi, ha accettato infine di consegnare i passaporti ucraini alle autorità d’occupazione, ricevendone in cambio nuovi passaporti russi, al fine di non ritrovarsi stranieri  a casa propria e dover far domanda per un permesso di residenza e di lavoro. Tuttavia, tali passaporti russi emessi a Sebastopoli e Simferopoli non sono riconosciuti internazionalmente e non sono validi per ottenere visti verso l’UE o gli Stati Uniti. Per ovviare a ciò, i cittadini ucraini di Crimea hanno la possibilità di registrarsi presso le autorità di Cherson, nell’Ucraina continentale, ottenendo un secondo passaporto ucraino valevole per l’espatrio.

Foto: Infowars.com

Cambiamenti demografici in Crimea: tatari (verde), russi (rosso), ucraini (giallo)

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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