Nel mare ci sono i coccodrilli. Intervista a Fabio Geda

di Gaetano Veninata

Enaiatollah era un ragazzino afghano che amava giocare a buzul bazi, un gioco che si fa “con un osso preso dalla zampa delle pecore”. Chiamava “paradiso” Nava, il villaggio dove viveva con la madre, nella provincia di Ghazni, e aveva un bravo maestro. Un giorno sua madre gli disse: “Partiamo” e lui senza capire rispose “partiamo, mamma, e dove andiamo?”. “Partiamo”, disse la madre. Tre giorni di viaggio, tre giorni di Afghanistan, poi il Pakistan e una notte che Enaiatollah non scorderà. “Non rubare, non uccidere, non drogarti”, disse la madre a un addormentato ragazzino afghano di nome Enaiatollah. E poi “khoda negahdar”, “addio”, disse la madre. Tornata a Nava, tornata in quella terra (correva l’anno 2001) che i talebani chiamavano “loro”. “Agli hazara – la famiglia di Enaiatollah era di etnia hazara – spetta il Goristan”, dicevano gli studenti coranici. “Gori” significa tomba. Poi l’odissea, per questo ragazzino senza età, giunto sotto la Mole cinque anni fa, dopo aver venduto merendine in Pakistan, aver viaggiato tra Iran, Turchia, Grecia, essere passato da Venezia e da Roma. Ora – secondo le autorità – ha 21 anni e dagli amici italiani si fa chiamare Giorgio. Per comodità. È rifugiato politico e vive con l’assistente sociale che lo prese in cura, è lei la sua nuova madre.

Fabio Geda, scrittore torinese, ha raccolto la sua testimonianza in un piccolo volume, “Nel mare ci sono i coccodrilli”, uscito da poco per la Baldini Castoldi Dalai.

Geda, com’è nata l’idea di un libro che raccontasse l’odissea di Enaiatollah?

Ci siamo incontrati tre anni fa alla presentazione di uno dei miei romanzi. Durante l’incontro il centro interculturale chiese a Enaiatollah di raccontare la sua storia; ci siamo innamorati subito del suo modo di raccontare, era incredibile il suo sguardo pieno di ironia e leggerezza nonostante fosse una storia incredibilmente drammatica.

E’ stato difficile interpretare le emozioni di un ragazzino afghano?

Io ho lavorato come educatore per tanti anni, conosco lo sguardo dei ragazzini, il ritmo e modo estraniante che hanno di utilizzare le parole e trasmettere i loro concetti. Diciamo che è stato difficile come sempre quando racconti una storia di qualcuno che non sei tu.

Quanto tempo ha trascorso con Enaiatollah per la stesura del libro?

Sette mesi, passando diversi pomeriggi a ricostruire il viaggio cercando i posti sulle cartine e approfondendo alcune cose che mi sembravano più importanti.

C’era qualcosa in particolare che lei voleva mettere in risalto?

Il mio è stato più un lavoro di mimesi, nel senso che ho cercato di capire cosa lui volesse mettere in risalto. Era lui che aveva alcune priorità, io ho solo cercato con gli strumenti tipici della narrativa e della fiction di costruire una storia che fosse piacevole da leggere. Siamo convinti che questa sia una storia che possa cambiare il modo con il quale le persone guardano i ragazzi come Enaiatollah. Se un ragazzino di 16-17 anni legge questo libro si rende conto di come è fatto il mondo e in che parte di mondo è nato, arrivando a capire che tipo di responsabilità ha nella vita.

Come ha fatto Enaiatollah a ritrovare la madre?

Lui lavoricchia sempre, da quando è arrivato in Italia: con i primi soldi guadagnati ha chiesto a un signore  pakistano che conosceva di andare a cercare i suoi familiari e di portarli in Pakistan. Cosa che è avvenuta senza bisogno di denaro.

A Torino c’è una grande comunità afghana?

No, gli afghani non sono molti in tutta Italia e a Torino ci sono solo trenta o quaranta ragazzi, con storie simili a quella di Enaiatollah. Lui per gli incroci strani della vita mi ha acceso la voglia di raccontare la sua storia, un’esigenza fortissima che sentivamo entrambi.

Non ha nostalgia dell’Afghanistan, Enaiatollah?

Credo che abbia una grande nostalgia della famiglia e della sua infanzia in quel paesino da cui è scappato: lo si vede quando parla della scuola, del maestro ucciso dai talebani, dei suoi giochi preferiti. Ma credo che oggi sia contento di vivere in un paese nel quale può sperare in un futuro migliore. Non crede che dal 2001 sia cambiato assolutamente nulla in Afghanistan. Non ci sono le condizioni per tornare. Anzi, vorrebbe far venire in Italia anche il fratello, ma lui sembra essere un po’ riluttante. Ma credo che Enaiatollah ci proverà ancora a convincerlo.

Vi siete già messi d’accordo per un futuro viaggio in Afghanistan?

Lui vorrebbe addirittura partire quest’estate per andare a trovare la madre, che ormai vive in Pakistan. In Afghanistan non può tornare perché è rifugiato politico in Italia e sarebbe un controsenso. Io vorrei accompagnarlo, ma lui si rifiuta di portarmi perché dice che è troppo pericoloso, che mi rapirebbero.

Gaetano Veninata

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