La violenza necessaria, intervista a Slavoj Zizek

Pubblichiamo quest’intervista, gentilmente concessa dagli amici dell’associazione torinese Acmos, sul tema della guerra e della violenza. Temi collaterali al nostro dibattito sul futuro dell’Europa (sull’argomento Zizek ha già detto questo) ma che si collocano in posizione di continuità rispetto all’Europa “armata, indipendente e autarchica” di Massimo Fini e all’idea, di Norberto Bobbio, già di Einaudi, che la società democratica si componga necessariamente di lotta. Quanto questa lotta possa esser violenta è altro discorso. E quanto la violenza sia necessaria… beh, sentiamo Zizek

di Elena Falco

da Acmos

Domanda difficile, e tuttavia ineludibile. L’articolo 11 della nostra Costituzione proibisce la risoluzione dei conflitti tramite la guerra. Eppure, siamo in guerra. Un articolo costantemente disatteso, uno scollamento radicale fra la realtà e la legge. Al punto da insinuare una domanda: è possibile una politica estera che prescinda dalla guerra? L’abbiamo chiesto a Slavoj Zizek, filosofo sloveno, l’intellettuale più richiesto e urticante della scena attuale.

Domanda inquietante: è necessario fare la guerra?

Oh mio dio, la risposta ti scioccherà. Forse non la guerra, ma la violenza è necessaria per me. Nella forma basilare che ha preso in Egitto, se guardi. Ma preferirei distinguere fra la violenza fisica, e quella più fondamentale antistatalista. Per essere chiari: quello che i dimostranti hanno fatto, ma in senso buono, senza uccidere nessuno, è stato estremamente violento. Hanno sospeso lo Stato, e in qualche modo la violenza di Mubarak, che era disgustoso. Era una – molto più modesta – violenza reattiva. Mubarak voleva, ovviamente, che le cose stessero com’erano, in modo da poter stare al potere. Ho detto in passato che il problema di Hitler era che non era abbastanza violento, come Gandhi. Questo tipo di violenza che appoggio, ovviamente non ha a che vedere con uccisioni, eccetera. Ma quella violenza attraverso la quale fermi la macchina della vita di ogni giorno, la macchina della vita politica.

E per quanto riguarda i conflitti internazionali, come andrebbero risolti?

Non dimenticare che quelli che sono davvero per la pace sono, di regola, quelli che hanno il potere, perchè non possono essere disturbati. Per esempio, quando il comunismo stava cadendo a pezzi, l’appello più grande era “non combattiamo gli uni contro gli altri, bla bla bla”, che voleva dire circa: lasciateci, permetteteci di stare, qui. E’ molto ambiguo il modo in cui puoi sempre combinare  i più alti ideali di pace con le chiamate alla violenza. Per cui per me il punto è non essere in generale contro la violenza, ma promuovere una – la chiamo così senza ironia – violenza popolare emancipatoria, consistente solo nell’ immobilizzare. Come in Egitto, occupi un luogo pubblico, cose così. Per questo tipo di violenza, non posso immaginare nessun cambiamento. E penso che sia questo che la sinistra dovrebbe fare. Questo atteggiamento puramente pacifista è una limitazione, non nel senso che sia troppo idealista, ma nel senso che è assimilato troppo facilmente. Lascia che ti dia un esempio: nel Messico zapatista, quel sub comandante Marcos. Ha iniziato bene, poi ha deciso di essere un’autorità morale non violenta, e ora tutti gli ridono dietro, so che lo chiamano il “sub comediante” Marcos. In un certo senso, hanno ragione. Così permetti alle persone di deriderti, dicono “oh che grande autorità morale!”, per forza, perché non fai del male a nessuno.

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5 commenti

  1. come spesso mi accade, non riesco a capire se Zizek sia provocatorio o manipolatorio.
    Alaa al-Aswany, uno dei più importanti scrittori egiziani contemporanei, ha detto che “per giustificare l’invasione dell’Iraq gli Americani dissero che era l’unica maniera per liberare una nazione da un terribile dittatore. Abbiamo dimostrato con la nostra rivoluzione che si può costringere un dittatore ad andarsene pacificamente”.
    Se definiamo violenta la strategia gandhiana allora dobbiamo concludere che ogni singolo istante della nostra esistenza è violento. Il che mi sta anche bene, se per violenza intendiamo “ogni azione compiuta (oppure la relativa minaccia) da una persona per recare danno ad un’altra persona o per costringerla a fare (o non fare) qualcosa, senza tener conto o violando la volontà dell’altra persona”.
    Ma da ciò non discende assolutamente l’epiteto “sub comediante” Marcos. In Messico è estremamente chiaro quante migliaia di persone innocenti possano morire in un conflitto generalizzato (es. narcotrafficanti contro forze dell’ordine ed esercito). Credo che la “minuta violenza” di Marcos sia indice di senso di responsabilità, di sano realismo e di affetto nei confronti della sua gente.
    Ben distante dall’infantilismo viziato e narcisista di un massimo fini che dichiara, con leggerezza: “Eppure la guerra ha avuto un ruolo determinante nella storia dell’uomo. Sia dal punto di vista politico e sociale che, e forse soprattutto, esistenziale. Soddisfa pulsioni e bisogni profondi, in genere sacrificati nei periodi di pace. La guerra consente di liberare, legittimamente, l’aggressività naturale, e vitale, che è in ciascuno di noi. È evasione dal frustrante tran tran quotidiano, dalla noia, dal senso di inutilità e di vuoto che, soprattutto nelle società opulente, ci prende alla gola. È avventura. La guerra evoca e rafforza la solidarietà di gruppo e di squadra. Ci si sente, e si è, meno soli, in guerra. La guerra attenua le differenze di classe, di ceto, di status economico che perdono importanza. Si è tutti un po’ più uguali, in guerra. La guerra, come il servizio militare, l’università, il gioco regolato, ha la qualità del tempo d’attesa, del tempo sospeso, la cui fine non dipende da noi, al quale ci si consegna totalmente e che ci libera da ogni responsabilità personale. La guerra riconduce tutto, a cominciare dai sentimenti, all’essenziale. Ci libera dall’orpello, dal superfluo, dall’inutile. Ci rende tutti, in ogni senso, più magri. La guerra conferisce un enorme valore alla vita. Per la semplice ragione che è la morte a dare valore alla vita. Il rischio concreto, vicino, incombente, della morte rende ogni istante della nostra esistenza, anche il più banale, di un’intensità senza pari. Anche se è doloroso dirlo la guerra è un’occasione irripetibile e inestimabile per imparare ad amare ed apprezzare la vita” (da Elogio della guerra, Marsilio, 1999).

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