La locomotiva è in Europa centrale

Proponiamo un ottimo articolo di Pierluigi Mennitti, giornalista professionista, esperto di Germania ed Europa centro-orientale, collaboratore de La Stampa e Lettera 43, su cui questo articolo è stato pubblicato. Buona lettura.

Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia sono tornate ad esportare i loro prodotti nell’Europa occidentale. Romania, Bulgaria e Paesi Baltici sono invece ancora impigliati nelle secche della crisi. La tempesta finanziaria degli ultimi due anni ha cambiato la geografia dei paesi dell’Europa centro-orientale e un’approfondita analisi del Financial Times Deutschland ne ridisegna confini e paesaggi: a vent’anni dalla caduta dei muri, le vecchie ferite della guerra fredda sono ormai sanate e le grandi differenze economiche non corrono più tra est e ovest ma fra centro e periferia.

Fra un centro che sulla tradizione mercantile mitteleuropea ha saputo costruire un moderno cuore industriale e una periferia che si dibatte fra debiti pubblici e privati e debolezze competitive. Negli Stati definiti «periferici», la crescita registrata fra la seconda metà degli anni Novanta e la prima metà del Duemila è stata determinata principalmente dai crediti, divenuti poi indigesti per i mercati finanziari. In alcuni casi si è sfiorata la bancarotta con l’intervento degli istituti internazionali e la conseguente adozione da parte dei governi di severe politiche di risparmio. Esattamente l’opposto è avvenuto nell’area «centrale», dove la creazione di valore aggiunto dell’economia è legato per una percentuale che oscilla tra il 20 e il 30 per cento al settore industriale. Più che in Germania.

È stata proprio l’impresa tedesca a rappresentare per questi paesi, non a caso quasi tutti confinanti, un partner importante, specie nei tradizionali punti di forza dell’auto e dei veicoli industriali. In Slovacchia, racconta Hubert Beyerle autore dell’articolo, nel solo 2009 le catene di montaggio delle industrie automobilistiche slovacche hanno sfornato quasi mezzo milione di vetture e nelle 11 fabbriche ceche il numero ha raggiunto le 975mila unità. «Più che in tutte le 20 fabbriche italiane», commenta l’autore.

Nei paesi periferici, tra i quali il giornalista include i Paesi Baltici ma anche una nazione del Sudest come la Grecia, il peso dell’industria sul prodotto interno lordo oscilla tra il 10 e il 15 per cento. La crescita è stata finanziata attraverso l’indebitamento pubblico e privato, all’insegna del motto «crescere per crescere». Non poteva durare a lungo, la crisi finanziaria ha ridotto la fonte dei crediti, le banche e gli investori ora vogliono vedere qualcosa di più del semplice consumo. Lo sviluppo della congiuntura economica ha così evidenziato la spaccatura.

Per molti anni gli osservatori occidentali hanno considerato l’ex blocco dell’est quasi come una matassa uniforme, trascurando le grandi differenze culturali, storiche ed economiche. Non era un blocco unico neppure ai tempi dell’Unione Sovietica, lo è diventato sempre di meno con l’irruzione del libero mercato. Le stime di crescita per la Polonia parlano di un 3,4 per cento per quest’anno, un dato rilevante soprattutto se si tiene conto che anche nel biennio della crisi Varsavia è riuscita a evitare cifre in rosso. Per la Slovacchia (un altro di quei paesi per i quali è stato coniata l’etichetta di tigre mitteleuropea) la stima è di poco inferiore al 3 per cento, con una previsione al 4 per cento per il 2011.

«Tutti i paesi con una robusta presenza industriale si stanno lasciando alle spalle le scorie della crisi – conferma al quotidiano economico Gunter Deuber dall’osservatorio privilegiato del centro ricerche della Deutsche Bank – e costituiscono un tassello importante, assieme alla Germania, della ripresa economica europea. Al contrario sono ancora in difficoltà, se non in caduta libera, quei paesi che hanno basato la loro economia sul credito e sul consumo». Non sono solo le politiche restrittive dei governi ad alimentare la spirale recessiva ma anche la circospezione con cui le banche erogano i crediti, dopo le esposizioni generose negli anni passati. E al problema dei tassi di cambio fissi delle monete, si aggiunge quello di una debole cultura imprenditoriale che costituisce l’impedimento principale alla creazione di un’industria votata alle esportazioni. I ricercatori dell’istituto per gli studi economici internazionali di Vienna (WIIW), altro osservatorio sensibile per l’area est-europea con competenze specifiche in tutta la regione, dal Baltico ai Balcani, concordano: «Le previsioni di crescita per l’area baltica e per l’Europa sud-orientale sono debolissime».

Il Fiancial Times Deutschland allarga infine lo sguardo all’intero continente, riflettendo lo schema centro-periferia a tutti i paesi dell’Unione Europea. Si sta creando una spaccatura fra il cuore centrale dell’Europa, costituito da Germania, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia con una forte struttura industriale orientata alle esportazioni, e la sua area periferica che trova in Lettonia come in Romania, in Grecia come in Portogallo i suoi punti di debolezza. L’inclusione dei due paesi mediterranei appartenenti all’area dell’euro nel blocco poco virtuoso che comprende Romania e Lettonia non è dovuta a una identica struttura economica ma alle priorità seguite negli ultimi anni dai governi di Atene e Lisbona e dalle loro opinioni pubbliche.

L’ultimo capitolo è riservato alle politiche imposte ai governi in difficoltà dal Fondo monetario internazionale. Il quotidiano economico ricorda come all’apice della crisi, l’istituto abbia messo loro a disposizione una cifra attorno ai 65 miliardi di dollari. Gli aiuti di Unione Europea e Banca mondiale, di cui hanno beneficiato Ungheria, Lettonia, Ucraina, Romania e Serbia, hanno raggiunto la cifra di 100 miliardi di dollari, più o meno 80 miliardi di euro. Ma le conseguenze sono state pesanti politiche di risparmio che «nel breve periodo hanno acuito la recessione e nel lungo periodo non è detto ottengano i risultati sperati». Il caso simbolo è proprio Budapest. Il nuovo governo conservatore sembra non aver più voglia di seguire le direttive del Fondo monetario, mentre nel paese cresce il malcontento e prende vigore un movimento dalle venature razziste e nazionaliste come lo Jobbik. Come riusciranno l’Europa politica e quella dei mercati a evitare l’approfondirsi di questa spaccatura fra centro e periferie – conclude il Financial Times Deutschland – è ancora poco chiaro.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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