La Jugoslavia e il club delle nazioni morte. Ivan Grubanov alla Biennale di Venezia

 

La Biennale di Venezia di quest’anno ospita l’opera dell’artista serbo Ivan Grubanov, “United Dead Nations” (Ujedinjenje Mrtve Nacije), che consiste nell’esposizione di diverse bandiere di stati che non esistono più, come la Jugoslavia, la Repubblica Democratica Tedesca, la Cecoslovacchia, ma anche l’Impero Austro-Ungarico, l’Impero Ottomano e altre entità statali che hanno avuta una durata limitata nel tempo. L’artista è stato intervistato per spiegare la sua arte, il messaggio che vuole trasmettere, nonché

la critica che essa porta con sé.

 

Ivan, qual’è il senso principale della tua opera?

L’installazione che presento quest’anno è molto concisa e condensata. E’ un processo artistico che fisicamente e simbolicamente, attraverso l’utilizzo di oggetti storici come le bandiere, cerca di trovare risposta alla domanda “che cos’è la nazione?” E come queste influiscano sulla formazione di una narrativa storica comune. Quindi ho cercato di dare a queste “nazioni morte” uno spazio, quello del padiglione, e un tempo, i 4 mesi della Biennale, affinché si possa simbolicamente rappresentare l’errare di queste nazioni attraverso la storia.

 

Quindi le nazioni morte hanno un qualche significato che va oltre il loro ricordo…

Quest’installazione dimostra come il mondo in cui viviamo sia caratterizzato da sfide sempre più incalzanti, che riguardano innanzitutto l’idea stessa di nazione, che non ha mai avuto una definizione fissa e stabile. Infatti, nel mondo di oggi ci troviamo a far fronte a categorie che non sono più “nazionali”, ma piuttosto transnazionali, internazionali e supranazionali. Queste nazioni morte dunque ci pongono un’altra domanda: “qual’è il futuro della nazione?”

 

Il padiglione in cui esponi la tua opera è quello della Serbia, anche se è sempre stato quello della Jugoslavia. Sembrerebbe dunque che sia poco rappresentativo della Serbia di oggi…

Questo padiglione è simbolo della mutazioni storiche e politiche che hanno caratterizzato il paese di cui porta tuttora il nome e per un’esposizione sulle nazioni morte è il luogo ideale. La Jugoslavia è tutt’oggi parte integrante della storia serba, della cultura di massa in Serbia e parte integrante dell’eredità culturale della società serba. Non rappresenta un capitolo del quale vergognarsi, ne una parte di storia da tenere sotto silenzio, ma bensì è il riflesso dell’energia e della saggezza di un popolo, affinché questo accetti la propria storia nella sua totalità, da cui poter imparare qualcosa per plasmare il proprio futuro.

 

Quindi la Jugoslavia non è solo una nazione morta, qualcosa è pur sopravvissuto…

La Jugoslavia aveva un’adeguata e funzionale forma di organizzazione sociale, politica ed economica. A parte alcune aspirazioni di carattere emotivo, ciò che aveva portato all’unificazione jugoslava era una sana logica politica ed economica, mentre invece oggi tutta la regione ha davanti a sé le peggiori conseguenze del collasso di quel paese. Inoltre, la “disfunzionalità” per la quale essa si sarebbe dovuta smembrare è stato un mantra inventato e imposto, innanzitutto dall’esterno, quindi non solo per cause interne. Ciò che ne ha risentito maggiormente è stata la convivenza sociale che era visibile a tutti i piani e livelli.

 

Non siete d’accordo con chi afferma che la Jugoslavia era una creazione artificiale…

Oggi abbiamo a che fare con un’organizzazione, l’Unione Europea, che unisce in sé società e nazioni che non solo non avevano trascorsi di convivenza, ma che addirittura non avevano un passato di coesistenza pacifica. Tale organismo, infatti, è mantenuto in piedi da comuni esigenze di carattere socio-economico. Lo stesso è valso per la Jugoslavia, anche se questa aveva molti più denominatori e intrecci comuni che si sono fusi naturalmente a livello culturale, ancestrale, storico e geografico. Quindi non si può dire che la Jugoslavia fosse una creazione artificiale e sicuramente non si può ritenere che la stessa Unione Europea non sia più artificiale di quanto sia stata la Jugoslavia.

 

Essere jugoslavi oggi cosa significa? E’ possibile che si possa ripetere l’esperienza jugoslava?

Sono nato e cresciuto in un paese che non esiste più e per quanto mi possa identificare bene anche con le mie origini serbe, la Jugoslavia continuerà ad essere parte integrante della mia vita e continuerà a vivere dentro di me. Purtroppo, è stato gettato un’incredibile stigma sulla Jugoslavia e ciò è avvenuto in modo ben pianificato sia dall’interno che dall’esterno. Tale stigma, così come lo stigma verso il socialismo, ha l’obiettivo di impedire il ritorno di una qualsivoglia forma di organizzazione o unione dei popoli della penisola balcanica in una qualche istituzione economica o politica che possa avere un maggior grado di autonomia ed indipendenza in relazione al resto d’Europa e le altre correnti dell’Occidente. Le stesse dinamiche esterne ed interne che hanno portato al collasso jugoslavo non consentirebbero quindi che si possa ripetere, a nessun livello, l’esperienza della Jugoslavia.

 

Il ritorno agli stati nazionali, dopo il collasso jugoslavo, sembra una grossa forzatura, considerata la natura multietnica dell’intera regione…

E’ stato un tentativo inutile. I Balcani rappresentano uno “spazio sismico” a causa dell’intreccio di genti, popoli e religioni. In realtà, quelle che noi vediamo come enormi differenze, se osservate in parallelo a regioni caratterizzate da intrecci simili, ci rendiamo conto che non sono poi così grandi. Infatti, si tratta di un unico popolo, unito dalla stessa cultura, stessa lingua, stesse tradizioni, stesse usanze e stessa mentalità. Le differenze dunque non sono che elementi minoritari di carattere nazionale e religioso ma che in nessun modo si traducono nell’impossibilità di convivere.

 

 

 

 

 

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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