KOSOVO: L'ipocrisia di Mitrovica. Nuove tensioni sul confine serbo

Mitrovica, Kosovo settentrionale. Il fiume Ibar taglia in due la città. Sul ponte un cumulo di macerie fa da muro tra la comunità albanese (70mila abitanti ca.), che abita a sud del fiume, e quella serba (20mila ca.) a nord. Da quando il Kosovo ha dichiarato la sua indipendenza, la città è un enclave serba in territorio albanese: pietra dello scandalo, oggetto del contendere, strumento per retoriche nazionaliste. I serbi di Mitrovica non ci vogliono stare sotto il governo albanese. Invocano improbabili secessioni, chiamano Belgrado a gran voce e questa, solerte e interessata, accorre.

La secessione del nord appare improbabile poiché, tra gli accordi firmati di recente tra Belgrado, Bruxelles e Pristina, c’è il riconoscimento dei confini e il diritto da parte della polizia albanese di presidiarli. Polizia che è in buona parte riciclata dai miliziani dell’Uck, l’esercito di liberazione kosovaro che di tanti crimini è responsabile.  Che il Kosovo sia uno stato criminale, dominato da un élite mafiosa, è cosa che abbiamo detto più volte. La Serbia, però, nel rispondere alle richieste di aiuto dei serbi di Mitrovica non fa altro che alzare la tensione ben sapendo di non poter nulla fare né sul piano diplomatico né su quello militare. Allo stesso modo il mantenimento di istituzioni parallele serbe, da parte degli abitanti di Mitrovica, e il rifiuto di accettare quelle kosovare, non viene biasimato da Belgrado. Le retoriche sul “Kosovo è Serbia”, inoltre, sono buone solo per la campagna elettorale in corso e sembrano rispondere, più che altro, a questioni di politica interna.

Il presidente Tadic, nel far proprie le istanze sul Kosovo, neutralizza l’ultradestra nazionalista. L’altra faccia della medaglia, però, è la credibilità internazionale in costante calo. A settembre era stato raggiunto un accordo tra Belgrado e Pristina sulla questione dei timbri doganali, un passo in avanti verso la normalizzazione. Poi ecco che, per esigenze di politica interna, il governo di Tadic fa l’occhiolino ai serbi di Mitrovica inviando loro derrate alimentari e benzina sottocosto, se non gratuitamente. Ora che questi “aiuti” non arrivano più, i serbi di Kosovo s’infiammano.

L’arrivo degli “aiuti” con cui Belgrado alimenta la tensione in Kosovo è stato interrotto dal momento che la polizia albanese ha preso possesso delle dogane. E lo ha fatto in base a un accordo siglato nel settembre scorso tra Belgrado e Pristina sulla questione dei timbri doganali. Timbri recanti la dicitura “Dogane del Kosovo”. Un riconoscimento implicito della sovranità albanese, secondo Pristina.

Belgrado ha un atteggiamento ambivalente. Da un lato firma accordi bilaterali che riconoscono fette di sovranità al Kosovo. Dall’altro appoggia le proteste dei serbi di Mitrovica contro quella stessa autorità. La diplomazia di Belgrado gioca con le parole: “dogane del Kosovo” non vuol dire “dogane della Repubblica del Kosovo” poiché secondo i serbi lo status del Kosovo è ancora da definire.

I serbi della regione non molleranno l’osso, questo è certo. Né lo farà il clero ortodosso locale, colpevole di buttare benzina sul fuoco. Il governo di Belgrado mostra la sua debolezza, però, nel gestire in modo cerchiobottista la situazione. Quella dei serbi di Mitrovica è una difesa da un pericolo forse inesistente: certo si sono registrati casi di persecuzione ai danni dei serbi di Kosovo ma, nel sud del Paese, nella regione di Strpce, dove esiste una comunità serba numerosa, si è raggiunto un punto di equilibrio e una pur precaria convivenza tra serbi e albanesi che lascia sperare per il futuro.

Dal canto loro le forze Eulex-Kfor sono percepite dalla popolazione serba come filo-kosovare. Certo nel far rispettare gli accordi presi – ad esempio aiutando la polizia kosovara nel controllo delle frontiere – esse agiscono in nome di un’Europa collusa con lo stato-mafia kosovaro. Dati i presupposti, infatti, l’indipendenza kosovara era inaccettabile. Non di fronte ai serbi ma di fronte alla cultura democratica che il vecchio continente deve preservare.

Il confine serbo-kosovaro è di fatto, oggi, una frontiera congelata. Congelata eppure rovente, dove può bastare una scintilla a scatenare l’incendio. E tutti, serbi, albanesi, europei e americani, ne saranno responsabili.

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Foto AP

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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