Ecco a voi Tapi, il gasdotto trans-afgano che val bene una guerra. Anche italiana.

di Matteo Zola

L’oro azzurro del Turkmenistan

Qualche giorno fa abbiamo parlato dell’oro azzurro del Turkmenistan, quello che Eni è riuscito ad accaparrarsi grazie all’intermediazione di Berlusconi e Putin. Non si è trattato di un caso isolato. Ecco che il governo dittatoriale di Ashgabat rompe gli indugi dopo anni di isolamento e il Turkmenistan si apre alla competizione energetica. Oltre al già citato investimento di Eni, i ministri energetici di Afghanistan, Pakistan, India si sono recentemente incontrati con l’omologo turkmeno per firmare l’accordo quadro per la costruzione del gasdotto “Tapi”, acronimo dalle iniziali dei Paesi coinvolti.

Attraverso l’Afghanistan 

Il Tapi è quel famoso gasdotto transafgano per realizzare il quale gli Stati Uniti hanno sostenuto i talebani negli anni ’90 e hanno poi, secondo molti, invaso l’Afghanistan nel 2001. La costruzione sarà ultimata nel 2014: una tubatura lunga 1.680 chilometri che trasporterà (a un ritmo di circa 90 miliardi di litri al giorno) il gas naturale estratto dai giacimenti turkmeni di Daulatabad attraverso l’Afghanistan occidentale e meridionale (HeratFarahHelmand Kandahar) fino in Pakistan e in India. Il gas verrà completamente captato lungo il suo percorso attraverso i tre paesi: ogni giorno, circa 14 miliardi di litri rimarranno in Afghanistan, 38 finiranno nei gasdotti pachistani e altrettanti in quelli indiani.

Gli interessi occidentali

Il Tapi, quindi, non servirà a rifornire i mercati energetici occidentali, com’era previsto nel progetto iniziale della compagnia petrolifera californiana Unocal, che non includeva l’India e prevedeva che i gasdotto terminasse al porto pachistano di Gwadar, sul Mar Arabico, da dove poi avrebbe dovuto essere trasportato via mare.

Ma le compagnie petrolifere occidentali ci guadagneranno lo stesso, partecipando alla costruzione e alla gestione del gasdotto, finora sponsorizzato dalla dalla Banca per lo sviluppo dell’Asia (Adb), istituto finanziario internazionale controllato da Stati Uniti e Giappone. Il suo costo di realizzazione è calcolato attorno agli 8 miliardi di dollari.

In guerra per l’Eni?

Probabile il coinvolgimento dell’italiana Eni, non solo perché la compagnia di Paolo Scaroni è già il principale partner energetico occidentale del Turkmenistan per lo sviluppo dei suoi giacimenti, ma anche perché buona parte del tratto afgano del Tapi dovrebbe passare nel territorio sotto controllo militare italiano: la provincia occidentale di Herat. Ecco che l’impegno militare italiano in Afghanistan rivela uno scopo non dissimile da quello made in Usa: il controllo (e la gestione) delle risorse energetiche.

L’unica condizione che permetterebbe al tratto afgano del Tapi di venire costruito e di funzionare in sicurezza, sarebbe l’assenza della minaccia armata talebana. Ma questo accadrà solo se e quando i talebani saranno formalmente tornati al potere, se non a Kabul, almeno nelle province pashtun – ipotesi, quest’ultima, sempre più in voga a Washington.

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Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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