Il ruolo della diaspora croata nella guerra di Tudjman

A vent’anni dall’indipendenza, la Croazia fatica a trovare la via per l’integrazione europea, è bene guardare indietro – agli anni della guerra patriottica – per poter guardare avanti poiché i problemi nel portare a termine il processo d’adesione all’Unione hanno una radice antica. La corruzione endemica della classe politica, un potere giudiziario dipendendente dal potere politico, il rimpianto per gli anni “eroici” della guerra d’indipendenza, stanno ricacciando la Croazia nella palude del nazionalismo. Riflettere su come si è realizzata quell’indipendenza, quali forze vi parteciparono e quali appoggi la favorirono, è necessario per comprendere la radice del male di cui soffre oggi il Paese. Tre sono stati i fattori principali che hanno portato all’indipendenza croata: l’appoggio del Vaticano, la sponsorship della Germania e l’aiuto della criminalità organizzata.

L’indipendenza croata, però, è stata possibile grazie a un fondamentale fattore esterno: la lobby della diaspora. Un gruppo di pressione attivo all’interno dell’Internazionale democristiana capace di far pendere verso le istanze croate il favore della comunità internazionale a partire dalla Germania.

I buoni rapporti tra Germania e Croazia si radicano ai tempi dell’Impero Asburgico passando, con la Seconda guerra mondiale, per l’alleanza del sanguinario regime fascista di Ante Pavelic con la Germania nazista, che di fatto fu madrina dell’indipendenza croata. In tempi più recenti, durante la guerra, e in piena violazione dell’embrago, armi destinate ai croati venivano fatte passare attraverso il confine austriaco. Spiega Francesco Strazzari*, docente di Teoria delle relazioni internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, intervistato da East Journal, che «nell’agosto del 1991, mentre i media trasmettevano il cri de douleur di Tudjman per la Croazia lasciata sola, gli aresenali croati erano in buone condizioni: centomila fucili erano stati comprati a Berlino poco prima che la Ddr collassasse, e centinaia di Stinger e missili anticarro provenivano dall’Austria. In Germania, inoltre, la stampa lanciò una campagna a favore della Croazia». La Germania è per la Croazia quello che la Russia è per la Serbia e la Turchia per la Bosnia Erzegovina.

All’inizio degli anni Novanta la cancelleria tedesca era in mano alla Cdu, il partito democristiano tedesco, e al suo cancelliere Helmut Kohl. Ministro degli esteri di Kohl era Hans Dietricht Gensher, lo stesso che si prinunciò apertamente a favore dell’ingresso della Croazia nell’Unione Europea quando i tempi non erano ancora maturi. Lo stesso che andrà, dieci anni dopo, ai funerali di Tudjman. La Cdu era il partito preminente tra quelli democristiani in Europa e l’unico al governo di un grande Paese (in Italia era in carica un governo socialista). L’operato della lobby della diaspora in seno all’Internazionale democristiana ebbe nell’appoggio della Cdu il suo più grande successo. Quel che i croati della diaspora seppero far capire ai democristiani europei era che, se non si fossero mobilitati, i Paesi dell’est Europa sarebbero finiti preda dei socialisti o della massoneria**, lesti ad approfittare del clima d’incertezza.

Dietro la benevolenza tedesca ci fu anche il contributo economico della diaspora croata, che depositò su un apposito conto bancario Ubs con sede in Svizzera. Soldi necessari per finanziare la guerra patriottica e oliare il traffico d’armi che passava dalla Germania e dall’Austria. Non solo: i circoli di émigrés croati in Argentina organizzarono un canale di approvvigionamento di armi che partiva dal Sud America con la complicità dell’allora presidente argentino Carlos Menem che, una volta scoperto, fu travolto dallo scandalo e costretto alle dimissioni. A mobilitare la lobby della diaspora fu il sentimento patriottico ma anche le promesse (mantenute) di Tudjman che li ricompensò durante il processo di privatizzazione. Il paese si trovò così in mano a “cento famiglie” che, ancora oggi, controllano le sorti dell’economia e della politica croata.

——–

*si veda Notte Balcanica, di Francesco Strazzari, Il Mulino 2008

** si veda Il triangolo dei Balcani, di Stevo Ostoja, su Limes 3/1999

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

Leggi anche

massacro

BOSNIA: Le condanne a trent’anni dal massacro di Strpci

Sono passati trent'anni esatti dal giorni in cui, alla piccola stazione di Štrpci, presso Višegrad, i paramilitari serbo-bosniaci rapiscono e poi fucilano 20 passeggeri del treno Belgrado-Bar. Nei mesi scorsi, la Corte della Bosnia Erzegovina ha condannato i responsabili diretti di tale crimine di guerra. 

12 commenti

  1. sono stato in croazia a febbraio, peraltro nei bastioni del nazionalismo e nei teatri di guerra. malgrado qualche colpo di coda nazionalista, qualche mitologia legata alla guerra patriottica, le conseguenze della crisi finanziaria (che ha picchiato duro) e un po’ di problemi burocratici legati al ritorno dei serbi (che però ritornano), devo dire che rispetto al resto della ciurma balcanica questi qua sono parecchio avanti. sarebbe interessante dare risalto anche agli aspetti positivi e un po’ meno dietrologici. ciao,

    m.

  2. Quella che tu chiami dietrologia, io la chiamerei storia (per quanto recente). L’impeachment di Menem per la Croatia line, non è dietrologia. Gensher ai funerali di Tudjman, nemmeno. L’incontro a Roma dell’Internazionale democratica nel dicembre 1991, neppure.

    Sul fatto che siano più avanti del resto della ciurma balcanica, è senz’altro vero. Il mio timore è che gli attuali problemi politici allontanino la Croazia dall’Unione, ne allontanino l’opinione pubblica. Dopo la condanna a Gotovina pare che meno del 50% della popolazione sia favorevole all’ingresso nell’Ue. E in autunno c’è il referendum…

    • non intendevo polemizzare, ma solo segnalare l’urgenza dell’attualità. tutti gli stati hanno i loro scheletri negli armadi e anche cose peggiori. però ai balcani va dato un briciolo di fiducia. sembra sempre che sono tutti nazionalisti, revascisti, brutti e cattivi. un po’ purtroppo è così, ma in parte anche no. vedrai, poi, che il referendum passa. anche in polonia tutti dicevano che avrebbe vinto il “no”. invece…

      • Speriamo davvero che passi, col periodo che stiamo vivendo in Europa una defezione croata sarebbe non solo triste ma nociva. Hai ragione a dire che di est si parla solo per dirne male. E hai ragione, anche noi sembriamo unirci a quel coro. Pensa che Ej era nato con l’intento opposto. E ancora, nel dire “il male” lo facciamo solo per lanciare un grido. Personalmente, quando vedo gli Orban e i Kaczinski, gli Haradinaj, i Djukanovic, mi viene l’orticaria. Ammiro quei posti, quei popoli, le loro culture. Quando penso alla Croazia penso a Krleza, che però la raccontava la tracotanza dei potenti che giocano con le vite della gente. Quelli che ho elencato sopra, fanno la stessa cosa in fondo…

  3. Riflettere su come si è realizzata quell’indipendenza, quali forze vi parteciparono e quali appoggi la favorirono, è necessario per comprendere la radice del male di cui soffre oggi il Paese.

    Io credo invece che quanto dice Matteo (Zola) sia più attuale che mai: le conseguenze della condanna di Gotovina hanno dimostrato quanto sia fragile e facilmente strumentalizzabile l’opinione pubblica. Secondo recenti sondaggi seguiti al caso Gotovina, oltre il 90% dei croati si è detto dalla parte del generale, percentuale che probabilmente non riuscirebbero a raggiungere nemmeno i serbi in un ipotetico (sic) arresto di Mladic. Il problema è che la Croazia di oggi è nata, sia concretamente che nel mito, nella sua “guerra patriottica”, resa sacra dalla politica sciovinista dell’HDZ e ormai tale nella memoria collettiva: la Croazia, al contrario della Serbia, da quella guerra è uscita vittoriosa, segnando finalmente la nascita del proprio stato moderno e indipendente. Questo è un processo che sempre, nella storia, ha comportato sangue e azioni più o meno discutibili, ora, non è colpa di nessuno se la Croazia ci è passata non a metà XIX secolo ma alla fine del XX. Il problema dei croati è che non vogliono cogliere la differenza tra la lotta per l’indipendenza, legittima, e alcuni mezzi esercitati nell’ottenerla: combattere l’esercito jugoslavo sul campo è legittimo, espellere mezzo milione di civili serbi dalla Krajina, rapinandoli e in diversi casi assassinandoli, non è legittimo. Ora, il problema è che se la comunità internazionale, l’Aja, si occupano di questo secondo aspetto, in Croazia si alzano scudi di indignazione, controaccuse, annunci della solita “cospirazione globale”, e quant’altro, perché si sente giudicati non solo nelle colpe di una parte, probabilmente minoritaria, criminale e assassina, ma nel proprio diritto morale e storico di esistere come paese: da questa mistificazione lo slogan tanto caro ai croati in queste settimane, “anch’io sono un criminale di guerra”. È la polvere del nazionalismo sedimentata sul suolo croato, e che ogni volta che viene sbattuta da qualche avvenimento eclatante si alza in aria e viene aspirata dai suoi cittadini. Fintanto che essa non verrà spazzata fuori dalla porta, un processo sempre doloroso e spesso politicamente sconveniente, ogni progresso civile per la Croazia (così come per le altre repubbliche), pur con tutto l’ottimismo di questo mondo, sarà un passo di gambero.

    • scusate, ragazzi, ma penso che sia naturale che i croati considerino gotovina un eroe, così come – altro esempio – i kosovari fanno con haradinaj. è chiaro che la croazia aveva diritto a riconquistare la krajina, no? visto che lo hanno fatto e che quello viene considerato come l’atto fondante della nuova patria, i conti tornano (gotovina = eroe). detto questo, bisogna anche considerare altre cose. la prima è che la fuga dei serbi della krajina fu dettata non solo dall’offensiva croata, ma anche dalla scelta vergognosa della serbia di milosevic, che impose ai propri connazionali di lasciare la krajina nel giro di poche ore, appenta giunta la notizia dell’avanzata di gotovina. la seconda è che comunque la croazia ha consegnato gotovina al tribunale dell’aja. mi pare sia già qualcosa. se avessero voluto fare gli stronzi, avrebbero continuato a coprire la sua latitanza in spagna. la terza è che una parte della società croata ha iniziato da tempo a rielaborare la guerra e a demitizzare la riconquista di knin, ma questo ovviamente non emerge mai, nei racconti della stampa e delle agenzie mainstream. la quarta è che in vent’anni è difficile operare una cesura netta tra diritto alla guerra e rispetto dei diritti nella guerra, bisogna dare tempo al tempo. infine, posto che i nazionalismi nei balcani esistono ancora e ancora sono forti, a me piace, quando posso, soffermarmi anche su aspetti di tipo nuovo, come gli ottimi rapporti tadic-josipovic, la loro visita congiunta a vukovar, tadic che va a srebrenica, croazia e slovenia che raggiungono un accordo sulla contesa di pirano, i serbi del kosovo che iniziano un po’ a prendere parte alla vita sociale del paese, gli accordi di cooperazione regionale sui trasporti ferroviari, la riscoperta di alcune radici culturali comuni, le coproduzioni cinematografiche, la musica e la letteratura come strumenti di dialogo. spero che abbiate capito che nel mio primo commento non intendevo polemizzare, ma lanciavo un auspicio affinché su east journal si parli anche meno facili e scontate da raccontare. ciao a tutti

    • si vede che non conoscete bene la storia della croazia quel mezzo milione di serbi si era imposesato della terra croata la Krajina e avevano creato uno stato indipendente la srpska krajina con un presidente e una moneta e i croati con la giuda del Gen.Gotovina hanno liberato il proprio paese.l occidente ne sa poco perche non parlano di chi ha attacato gotovina ha diffeso il suo popolo e la sua patria non sono stati i croati ad iniziare la guerra ma i serbi che avevano tutte le armi del esercito iugoslavo mentre i croati compravano armi illealmente in romania ecc.e vukovar?la povera gente che e stata presa dal ospedale e sterminata sena aver fatto niente.e onore ai uomini venuti da tutto il mondo guardano in televisione quello che stava accadendo in croazia e vedendo che i propri paese non facevano niente hanno deciso di venire e combattere per la croazia….http://www.usddr.net/

      • Gent. lettore

        anzitutto grazie per il commento. Non dica che “non conosciamo la storia”. Altrove su questo sito, se avrà pazienza di leggere, troverà non poche critiche sull’eccidio di Vukovar e sulle molte rsponsabilità serbe. Ogni parte in guerra ha avuto le sue responsabilità, croati come serbi. E come gli albanesi del Kosovo nel 1999. In questo articolo però si parla di Croazia. E le responsabilità di Gotovina sono attestate dalla sentenza del Tribunale dell’Aja, così come lo saranno – stia certo – quelle di Hadzic. Quello cui noi di East Journal vorremmo è che le genti croate, serbe, albanesi, bosniache, guardino prima alle proprie responsabilità e poi alle colpe degli altri. Solo così, secondo noi, sarà possibile lasciarsi alle spalle quella guerra.

  4. Scusa Matteo, lo so che questo probabilmente non è il luogo più adatto per esprimersi al meglio e stiamo tutti riassumendo concetti più complessi, ma il tuo riassunto complessivo dei fatti della Krajina è quanto meno opinabile: nessuno mette in dubbio che la Croazia avesse diritto a riconquistare la Krajina, uno stato sovrano che vede parte del proprio territorio minacciata e assediata da un esercito esterno o anche da una minoranza interna ha pieno diritto di ristabilire ordine e controllo per mezzo della forza, solo che in questo caso, già che c’erano, hanno pensato simpaticamente di risolvere la questione dei serbacci con la pulizia etnica: il fatto che Milosevic abbia strumentalizzato la cosa disinteressandosi della sorte dei suoi connazionali in Croazia è un altro fatto accertato, ma non riduce minimamente le colpe croate. In fondo anche i serbi avevano il pieno diritto nel 1998/99 di sedare con l’uso della forza le violente pretese separatiste dell’UCK in Kosovo, e nessuno avrebbe potuto contestare nulla, se non si fossero messi anche loro a bruciare villaggi albanesi e ammazzare decine di civili… e infatti questo ha condotto poi ai bombardamenti NATO e tutto ciò che sappiamo, la memoria del Kosovo è ancora forte nelle coscienze collettive in occidente, la Krajina sfido chi ne sa qualcosa (tolti noi che ci interessiamo a questa ragione). È questa la mistificazione che volevo sottolineare, l’errore che compiono i croati oggi, ovvero l’idea che in una guerra giusta combattuta dalla parte giusta non è concepibile che si siano compiuti crimini di guerra! Ed è ciò che traspare nelle reazioni croate di queste settimane.
    Ma comunque, per fare un discorso più ampio in merito alla tua (condivisibile!) critica sul fatto di non ridurre i Balcani a solita macchietta di crimini e sangue ma valorizzare anche gli aspetti positivi, gli sforzi collettivi… ti rispondo a titolo personalissimo: io sono serbo, e mi occupo di Serbia. Lo faccio con vivo interesse, a volte con orgoglio, più spesso con preoccupazione, ma se lo faccio è perché nutro la convinzione che il mio paese, la regione dei Balcani siano parte fondante dell’Europa, e che l’Europa sia il loro posto, che abbiano il diritto ma anche le potenzialità per farne parte. Se non lo pensassi non perderei nemmeno tempo a scrivere su EJ, aspetterei che scivolino tutti lungo il Danubio e affondino nel Mar Nero e buonanotte. Occorre però anche onestà intellettuale, io posso sforzarmi di cercare sempre il lato positivo di una vicenda, ma non posso chiudere gli occhi di fronte al quadro generale: per rimprendere il tuo esempio, è vero, Tadic va a Vukovar, ma intanto il suo paese scivola nella corruzione partitocratica e non oppone resistenze alle spinte nazionaliste interne. Non vedo al momento uno sforzo reale e sincero verso un futuro migliore, purtroppo la maggior parte dei gesti d’apertura che riscontriamo tra quei paesi sono più risposte a pressioni europee, occhiolini lanciati all’occidente per farsi belli di fronte alla comunità internazionale, che parte integrante di macropolitiche nazionali dirette all’ammodernamento dei singoli paesi. Vogliamo fare della realpolitik, vogliamo dire che beh, in fondo è normale che siano spesso le pressioni economiche e politiche dell’Unione Europea a dare spinta ai rinnovamenti dei paesi dell’eterna transizione? Sarà vero, ma sarebbe molto più dignitoso anche per la mia Serbia se camminasse sulle proprie gambe, con le proprie forze e per propria scelta, perché avrebbe le potenzialità per farlo (e in questo sta il mio ottimismo). Fare invece finta di niente e accontentarsi di quelle mere dichiarazioni d’intente che ogni tanto lanciano verso l’esterno, per rassicurarci e far vedere che hanno fatto i compiti, significa avallare e fare il gioco proprio di quelli che, come Tadic, sguazzano nell’ambiguità di un proeuropeismo mancato o latente, col quale cercare solo di stabilire un equilibrio sufficiente per resistere un altro po’ ai posti di comando.
    Insomma, io ritengo che l’integrazione, la fiducia e l’accettazione passino prima di tutto dalla conoscenza reciproca, nel bene e nel male, tra le parti. E mi piace pensare che anche EJ sia un piccolo passo verso questa meta, un faro puntato verso una regione oggi un po’ più dimenticata dai media tradizionali, che si svegliano, questi sì, sempre e soltanto quando qualcuno ricorre alle armi.

    • Secondo me il discorso di Matteo (Tacconi) è un altro: guardare avanti, non guardare indietro. Raccontare il presente, non il passato. Era un consiglio di massima, credo. Poi certo, il presente ha contraddizioni che nel passato hanno radice, ma è anche vero che ci piace (perché ci serve, perché forse tante cose le dobbiamo ancora capire “per davvero”, sistemare, trovare ragione o motivo) rimestare nel torbido. Personalmente ho poi una predilezione per il torbido, e qui ha ragione Tacconi nel dire che forse dovremmo provare a raccontare non solo i problemi, ma anche i successi dei luoghi che sono oggetto della nostra osservazione. Ne parleremo tra noi. Stimoli “esterni” come questo sono, secondo me, non solo benvenuti ma necessari…

      m.zol

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com