BOSNIA: Referendum! L’eterno ritorno dello spauracchio di Dodik

L’assemblea legislativa della Republika Srpska (RS) – l’entità amministrativa a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina – ha votato mercoledì 15 luglio per indire per metà settembre un referendum sul sistema giudiziario dello stato e sull’autorità dell’Alto Rappresentante internazionale. La mossa, a sorpresa, è venuta dal presidente dell’entità, Milorad Dodik; 45 deputati hanno votato a favore, 31 si sono astenuti.

I cittadini bosniaci residenti in Srpska saranno chiamati ad esprimere la loro opinione su “le leggi incostituzionali e non autorizzate imposte dall’Alto Rappresentante e dalla comunità internazionale, specialmente le leggi imposte sulla Corte statale e il Procuratore della Bosnia-Erzegovina”. Una formulazione non esattamente neutrale del quesito referendario, che non è passata inosservata.

“Si tratta di vedere se preservare la nostra costituzione [della RS, ndr] e i nostri diritti internazionali, o se continuare sulla strada della degradazione della Republika Srpska”, ha affermato Dodik nel suo discorso all’assemblea, sostenendo di stare cercando nient’altro che “il rispetto degli accordi di pace di Dayton e una chiara distinzione tra le autorità costituzionali della Bosnia-Erzegovina e della Republika Srpska”. Dodik ha aggiunto che la corte statale concentrerebbe troppo le sue investigazioni per crimini di guerra sui serbo-bosniaci, e che essa costerebbe “milioni” alla Srpska pur agendo contro i suoi interessi.

Da quando è stato eletto a capo della Republika Srpska nel 2006 Milorad Dodik ha già ventilato più e più volte – circa una trentina, hanno contato i più attenti – l’ipotesi di ricorrere ad un referendum: per la secessione dell’entità, o come in questo caso per la delegittimazione delle istituzioni statali a cui l’entità deve rendere conto. Questa è la seconda volta (dopo il 2011) in cui tale minaccia viene formalizzata a livello legislativo. Alle scorse elezioni politiche di ottobre 2014, il suo partito SNSD ha subito un rovescio elettorale non indifferente, perdendo il posto all’interno della presidenza tripartita bosniaca, e riuscendo per il rotto della cuffia a mantenere una maggioranza parlamentare nella propria entità. “Ci siamo astenuti perché la proposta di referendum ha sapore elettorale“, hanno affermato i deputati dell’opposizione serbo-bosniaca. E proprio in settembre, secondo alcuni, la Srpska si troverebbe ad affrontare una grave crisi di liquidità finanziaria – qualcosa che il referendum potrebbe mettere in secondo piano.

Solo quattro anni fa, nel 2011, un’analoga iniziativa di Dodik era stata arrestata grazie all’intervento europeo e all’introduzione di un “dialogo strutturato sulla giustizia“, con la partecipazione dei rappresentanti di ogni livello amministrativo bosniaco così come dell’UE, delle associazioni professionali di magistrati e avvocati, e delle ONG della società civile. L’ultima sessione del dialogo strutturato avrebbe dovuto tenersi proprio nei giorni precedenti al voto all’assemblea di Banja Luka.

Le reazioni 

L’iniziativa di Dodik ha sollevato un coro di condanne. I diplomatici europei a Sarajevo hanno affermato che il referendum è insensato, poiché la Srpska non ha competenza per mettere in discussione l’autorità della Corte statale e dell’Alto Rappresentante. I funzionari e politici bosniaci hanno invece sottolineato come tale voto rappresenti una minaccia alla pace in Bosnia-Erzegovina.

“Chiedere ai cittadini di votare contro parti essenziali degli Accordi di Dayton è irresponsabile e mostra quanto una élite potente sia pronta a continuare a portare la Srpska e la Bosnia intera verso una crisi profonda,” ha affermato Valentin Inzko, l’Alto Rappresentante internazionale (OHR). Inzko ha anche ricordato come le leggi sulla Corte statale e sul Pubblico Ministero siano state approvate nel 2002 e 2003 dal Parlamento bosniaco con la partecipazione dei deputati SNSD, e come la Corte Costituzionale bosniaca abbia già confermato due volte la loro costituzionalità e compatibilità con gli accordi di Dayton. “L’OHR darebbe il benvenuto ad ogni sforzo per rendere la magistratura statale più efficace, ma sottolinea che ogni miglioramento deve passare per il Parlamento bosniaco.” Inoltre, ricorda Inzko, il mandato e i poteri esecutivi dell’Alto Rappresentante sono stati ripetutamente appoggiati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sono parte integrante degli accordi di pace siglati vent’anni fa. “Le autorità dell’entità dovrebbero desistere dal proposito di tenere un referendum in violazione degli accordi di pace e al di fuori della loro giurisdizione.” In ogni caso, la “comunità internazionale mantiene gli strumenti necessari per difendere la tenuta degli accordi di pace”, ha concluso Inzko con un velato riferimento ai propri poteri esecutivi, di cui l’OHR cerca da tempo di limitare al minimo l’uso, ma che gli consentirebbero, se necessario, di annullare d’imperio il referendum.

Ad Inzko ha fatto eco il Peace Implementation Council (PIC), l’assemblea di 55 stati e organizzazioni internazionali incaricare di vegliare sulla tenuta degli accordi di pace in Bosnia. Con il solo dissenso della Russia, il PIC ha denunciato il referendum in Srpska come una “violazione fondamentale” di Dayton, poiché l’assemblea di Banja Luka può annunciare referendum solo sulle questioni di sua competenza. I problemi sollevati dovrebbero essere affrontati per “vie legali” attraverso “le competenti istituzionali statali”, secondo il PIC.

E in anticipo sul voto dell’assemblea, gli ambasciatori di USA, UE, Francia, Germania e Regno Unito, più un diplomatico italiano, si sono recati a Banja Luka per cercare di dissuadere la leadership serbo-bosniaca dall’andare avanti. “Riconosciamo che esistono problemi significativi con la corte e il sistema giudiziario in Bosnia a tutti i livelli, incluso quello statale.” Ma, sottolineano nel comunicato congiunto, “vogliamo lavorare in uno spirito di partenariato” attraverso meccanismi quali quello del Dialogo Strutturato, che hanno portato  a risultati quali la nuova strategia per la riforma del settore giustizia. L’annunciato referendum, al contrario, sarebbe “uno spreco di soldi pubblici”, “un tentativo incostituzionale” di minare l’autorità di cruciali istituzioni statali, e “una minaccia diretta” alla sovranità e sicurezza del paese, oltre che al suo percorso di integrazione europea e alle riforme socioeconomiche di cui il paese ha bisogno. “Ciò non può essere tollerato. L’ultima cosa di cui la Bosnia ha bisogno è un inutile scontro“.

Ugualmente si sono espressi la capo della diplomazia UE, Federica Mogherini, e il Commissario UE all’allargamento Johannes Hahn, per i quali il referendum sarebbe in contraddizione con l’impegno scritto alle riforme per l’integrazione europea, preso da tutti i partiti politici bosniaci solo nel febbraio scorso. “Il presidente Dodik dovrebbe tener conto che i referendum sono strumenti per decisioni fondamentali. Se usati per ragioni tattiche, sono uno strumento sbagliato e controproducente” ha affermato inoltre il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, di passaggio a Sarajevo.

A Sarajevo intanto, non è mancata la mobilitazione. Emir Suljagic, viceministro alla difesa e già attivista per i diritti dei ritornati bosgnacchi in Srpska, ha definito la decisione “una chiamata alla guerra”. “Calendarizzare e tenere questo referendum senza dubbio causerà violenze“, ha affermato.

Infine sono partiti i ricorsi: quello dell’opposizione serbo-bosniaca alla Corte costituzionale dell’entità, e quello del membro bosgnacco della Presidenza, Bakir Izetbegovic, alla Corte Costituzionale statale. In effetti, su questioni che sollevano un conflitto di competenza e una questione di costituzionalità, sarebbe stato logico attendersi un ricorso alle autorità giudiziarie preposte a tal fine, anziché alla vox populi referendaria. Ma il concetto di stato di diritto non è ovunque di casa, e Dodik ha già annunciato che il referendum si terrà anche in caso di responso negativo della Corte Costituzionale, poichè tale decisione sarebbe secondo lui “politica anziché legale”.

La necessità di una riforma della giustizia in Bosnia

Retorica e strumenti a parte, sono tuttavia in molti a riconoscere che la mossa di Dodik solleva un problema reale, e che il sistema giudiziario bosniaco necessita di una riforma profonda per liberarlo dalla politicizzazione. Lo dicono in primis i deputati dell’opposizione serbo-bosniaca, ma anche i leader dei tre partiti bosgnacchi di centrosinistra (Socialdemocratici, Fronte democratico e Alleanza per un futuro migliore), che in un comunicato, pur denunciando il referendum, affermano di “condividere l’insoddisfazione verso quella parte del sistema giudiziario bosniaco che è uno strumento nelle mani di un solo partito politico”. Senza nominarli, i tre si accodano all’opinione di Milorad Dodik, per il quale “la Corte e il Pubblico Ministero sono sotto la diretta influenza dello SDA di Bakir Izetbegovic“. Un partito che, riconoscono a Sarajevo, governa anche quando non è al governo, poiché può contare sulla fedeltà dei dirigenti dell’amministrazione pubblica del paese.

Il riferimento, in questo caso, è alla vicenda del mandato di cattura per Naser Oric. L’ex comandante dell’esercito bosniaco, a capo della difesa dell’enclave di Srebrenica tra il 1992 e il 1995 e assolto dal tribunale dell’Aja – ma ancora considerato da molti serbo-bosniaci un criminale di guerra – era stato arrestato il 10 giugno in Svizzera su mandato di cattura internazionale spiccato dalla Serbia. La procura statale bosniaca si era quindi precipitata a inoltrare un secondo mandato di cattura, con il quale garantire l’estradizione di Oric a Sarajevo anziché a Belgrado, per primazia territoriale. Una volta estradato in Bosnia, Oric è stato subito rilasciato. Una vicenda complessa, che avrebbe potuto mandare in subbuglio le commemorazioni del ventennale di Srebrenica (il sindaco della città, Camil Durakovic, si era detto pronto a sospenderle per ragioni di sicurezza) e che ha fatto rimontare la tensione tra Serbia e Bosnia-Erzegovina, e tra il governo bosniaco e la sua entità decentrata.

Eppure, sulla questione dell’annunciato referendum, Dodik non ha trovato sponda a Belgrado. Il primo ministro serbo Aleksandar Vucic, reduce dalla sassaiola ricevuta a Srebrenica, ha annunciato l’invito della presidenza tripartita bosniaca a Belgrado, per stemperare le tensioni (nonostante qualche controversia sul protocollo), e durante la visita di Dodik nella capitale serba ha chiesto a questi di “riconsiderare la decisione sul referendum”, e si è detto pronto a intervenire all’assemblea di Banja Luka per giustificarlo.

Il referendum di Dodik dovrebbe tenersi a fine estate, a meno che qualche rinnovata iniziativa politica non riporti il presidente della Srpska a più miti consigli. D’altronde anche i serbo-bosniaci potrebbero dimostrarsi di una diversa opinione. Come ricorda Valery Perry, secondo un sondaggio del 2013 la quasi totalità dei serbo-bosniaci (come come di bosgnacchi e croato-bosniaci) considera necessario affrontare il settore giustizia all’interno di una riforma della Costituzione statale; e, sorprendentemente, quasi due terzi degli stessi serbo-bosniaci considerano che la lotta al crimine organizzato e alla corruzione sia meglio condotta a partire dal livello statale anziché da quello dell’entità. “C’è poca fede da parte dei rispondenti serbo-bosniaci in Srpska sulla capacità delle istituzioni dell’entità”. Il referendum potrebbe costituire per Dodik un’utile distrazione.

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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2 commenti

  1. La domanda è: perché tutti, incluso chi ha scritto quest’articolo, si esprimono sempre contro le preferenze della RS? Ma forse non è sufficiente. Meglio innescare domande più specifiche.

    Perché il Kosovo può dichiararsi indipendente, e questo non violerebbe alcuna risoluzione ONU, mentre la RS non può fare altrettanto pacificamente, dato che violerebbe scaffali di risoluzioni?

    Perché la Bosnia può dichiararsi indipendente, e questo non minerebbe “la pace, la stabilità, gli interessi della popolazione e della regione” mentre invece una dichiarazione di indipendenza della RS minerebbe tutto assieme?

    Perché la Croazia ha potuto dichiararsi indipendente mentre la Krajina non ha potuto fare altrettanto, e perché la messa in fuga di centinaia di migliaia di civili e di un esercito che difendeva solo le proprie case di dovrebbe chiamare la gloriosa “guerra d’indipendenza croata”, approvata e sostenuta dalla pacifista comunità internazionale?

    Perché la crisi Ucraina, fomentata e partita dall’ambasciata americana, non si è potuta risolvere pacificamente mediante la ridefinizione dei territori a seconda del desiderio della maggioranza della popolazione mentre invece la comunità internazionale per difendere chissà che cosa nell’interesse di chissà chi preferisce che continuino a morire migliaia di innocenti?

    Ma soprattutto, con quale autorità ambasciatori e governanti di altri stati impongono la propria volontà, o quella dei vicini, ad una popolazione che vuole semplicemente starsene per conto proprio, senza soccombere in un esilio forzato che dura secoli, e che – per desiderio dei suoi nemici – ha causato la prima guerra mondiale e parte della guerra degli anni ’90?

    Per quale motivo etnie che mal si sopportano sono costrette a farlo vivendo assieme, ed una in particolare deve sottostare alle decisioni delle altre due, coalizzate contro di essa e sostenute dalla comunità internazionale?

    È ovvio e palese che la gran parte delle persone, pensando alla RS come ad un tumore creato dalla guerra degli anni ’90 – quando lo è l’intera Bosnia ed Erzegovina ormai – sostengano le altre due comunità in un progetto teso al rimescolamento della sua popolazione, all’indebolimento della sua identità, alla soppressione della sua autonomia. Perché, come in Krajina, come nel Kosovo del
    nord, come in RS e nel Donbass, l’unico VERO motivo per cui le popolazioni locali devono subire guerre o soprusi è che, essendo esse appartenenti a paesi e mentalità non allineate e non supportate dalla comunità internazionale, in nome delle molte belle parole citate anche in questo articolo devono attendere o la sconfitta o l’indebolimento perché poi le etnie principali di queste regioni mantengano i propri stati al massimo delle loro dimensioni. Non c’è nient’altro, e pur essendo questo profondamente ingiusto, spiega in un paio di righe tutto quel che accade in quei posti.

    L’autodeterminazione dei popoli, sia essa giuridica, politica o nazionale, viene sempre concessa con due pesi e due misure, velando le bilance con gli interessi dei mercanti più facoltosi, e concedendo i privilegi democratici solo a chi è più vicino all’occidente.

    All’ipocrisia del mondo sembra proprio non esserci mai fine.

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