BOSNIA: L’impossibile riforma della scuola e la politica dell’identità

L’intervento internazionale post-bellico in Bosnia ed Erzegovina è spesso indicato come esempio di errori, ma tali errori sono solo raramente specificati e spiegati. E’ ciò che invece cerca di fare Naomi Levy in un articolo del volume di dicembre 2014 del Journal of Intervention and Statebuilding, intitolato “International peacebuilding and the politics of identity: Lessons from social psychology using the Bosnian case“.

La psicologia sociale e i meccanismi di costruzione dell’identità

Levy si concentra sul caso della riforma del sistema educativo bosniaco, volta a rovesciare l’eredità bellica di “istruzione separata”, per sottolineare le conseguenze impreviste e controproducenti dell’azione internazionale. Partendo da concetti di psicologia sociale e teoria dell’identità, Levy mostra come azioni simboliche rischino di rafforzare proprio quei processi di costruzione dell’identità che vorrebbe invertire. “I costruttori della pace dopo un conflitto sono [sempre] coinvolti in progetti di costruzione dell’identità“.

Secondo la psicologia sociale, l’identità di un individuo deriva dalla sua appartenenza a più gruppi, che fungono per l’individuo da possibile fonte di autostima. Ciascun individuo tende a desiderare uno status più alto per i gruppi a cui appartiene, cosa che ottiene attraverso la discriminazione relativa degli altri gruppi e dei loro membri, qualunque sia il marcatore (culturale, religioso, linguistico, etnico, razziale, sessuale, etc) alla base di tale differenziazione. Tali identità collettive vengono costruite attraverso l’attività di attivisti e imprenditori politici (identity-building). Per uscire da tale spirale discriminatoria, è possibile usare strategie di ricategorizzazione, che portino i membri di un gruppo a considerare anche i membri di altri gruppi come propri pari e simili. Se l’identità comune dei due gruppi viene considerata più importante delle differenze, si potrà arrivare ad una cooperazione. “Una identificazione sovraordinata può essere una fonte di unità, se è promossa e resa saliente”, ad esempio richiamandovi l’attenzione, introducendo obiettivi e un destino comune, e arrivando ad una cooperazione tra gruppi diversi.

Tuttavia il processo di ricategorizzazione non è sempre in grado di superare le differenze. Come osservato da Gaertner e Dovidio (2008), “quando le identità di gruppi e i valori culturali che vi sono associati sono centrali … sarebbe indesiderabile o impossibile per le persone abbandonarle”, con il rischio di suscitare reazioni opposte. In tali casi, l’unica possibilità è quella di favorire una doppia identificazione, in cui “i confini di gruppo sono mantenuti all’interno di un contesto in cui tutti i gruppi si sentono parte della stessa squadra”. Al contrario, il tentativo – anche solo percepito! – di rimuovere le differenze tra i gruppi, ossia ciò che rende tali identità utili per i loro possessori, nel senso di distinguere dagli altri e fornire appartenenza, potrebbe suscitare una reazione contraria e anzi favorire ancor più il radicamento di tali identità. “La sola percezione di una minaccia simbolica … porterà a maggiori livelli di esclusione degli esterni e ad un maggior senso di omogeneità intragruppo, specialmente tra gli individui che più si identificano con gli altri membri del gruppo.”

La riforma dell’istruzione in Bosnia ed Erzegovina e i suoi effetti controproducenti

Questi processo di psicologia sociale sono all’opera in Bosnia ed Erzegovina, secondo Noemi Levy, e sono particolarmente evidenti nel caso della riforma dell’istruzione. A seguito degli accordi di Dayton che hanno messo fine al conflitto, la competenze sui sistemi educativi separatisi durante la guerra è stata lasciata alle entità sub-statali, Republika Srpska da una parte, e cantoni e municipalità della Federazione dall’altra. L’iniziativa internazionale per superare tali differenze è stata controproducente: “gli sforzi di riforma della comunità internazionale hanno involontariamente suscitato minacce simboliche alle identità etnonazionali di molte persone in Bosnia, e si sono così dimostrate controproducenti rispetto all’obiettivo di costruire la pace nelle scuole bosniache”.

Il primo esempio è quello della riforma dei curriculum educativi, partita con la Dichiarazione di Sarajevo del 1998, volta a fare di Sarajevo un modello di coesistenza per tutto il paese attraverso il ritorno dei rifugiati. Tuttavia, l’onere di tale progetto veniva così a posare sulla sola comunità bosgnacca, che lo percepì come “un’affronto alla sua narrativa di guerra, in cui i bosgnacchi erano dipinti come le vittime principali di una guerra d’aggressione”, rafforzandone al contrario l’identificazione etnonazionale. Lo stesso avvenne l’anno successivo con lo sforzo di rimuovere le informazioni più controverse dai curriculum, con l’effetto imprevisto di focalizzare l’attenzione proprio su tali informazioni “proibite”.

Il secondo esempio riguarda la reintegrazione fisica degli istituti scolastici, che nel territorio della Federazione, con il ritorno dei rifugiati bosgnacchi nelle città a maggioranza croata e viceversa, si è svolta secondo il modello di Stolac di “due scuole sotto uno stesso tetto“, con la separazione fisica degli studenti delle due comunità (da poco dichiarato incostituzionale). Per evitare tale segregazione, nel caso del Ginnasio di Mostar la comunità internazionale preparò nel 2002 un piano in più fasi per l’unificazione delle due amministrazioni e dei due curriculum, per arrivare ad una integrazione a livello delle singole classi. Il progetto, tuttavia, suscitò le forte reazioni di studenti e genitori. Secondo Levy, ciò si deve al fatto che l’integrazione al livello di classe è possibile solo se le differenze linguistiche tra croato e bosniaco vengono ignorate – e ciò è percepito come una minaccia esistenziale da parte della comunità croato-bosniaca. Come risultato, la maggioranza delle scuole nella Federazione restano mono-etniche; paradossalmente, le uniche in cui vi sia un effettivo contatto tra bambini delle diverse comunità sono quelle della Republika Srpska, dove studenti della comunità minoritaria sono iscritti a scuole che usano il curriculum della comunità maggioritaria – che continua tuttavia a contenere passi ed elementi potenzialmente offensivi o controversi per loro.

Promuovere una doppia identificazione: essere croati, e cittadini bosniaco-erzegovesi insieme

Come uscirne? Secondo Naomi Levy, “non si può ignorare il fatto che i peacebuilder internazionali in Bosnia ed Erzegovina siano coinvolti in progetti di costruzione delle identità, così come lo sono gli imprenditori politici etnonazionali”. Quegli sforzi di riforma che sono stati percepiti come minacce simboliche alla peculiarità dei gruppi hanno finito per rafforzare le identità etnonazionali e fomentare il conflitto.

In primo luogo, conclude Levy, “la comunità internazionale deve accettare la differenziazione linguistica che è in corso in Bosnia ed Erzegovina”. Non perché essa abbia delle basi effettive nella linguistica serbocroata, ma perché è percepita dalle comunità etnonazionali come base della propria distinzione identitaria, e “il diniego di queste differenze è precisamente il tipo di minaccia alla differenziazione che ha più probabilità di rafforzare le identità di gruppo”. La comunità internazionale dovrebbe quindi abbandonare il progetto di integrazione a livello delle singole classi, e focalizzarsi invece sulla riforma di ciascuno dei tre curriculum nazionali al fine di promuovere una doppia identificazione, con il gruppo etnonazionale e con lo stato bosniaco-erzegovese. “In un contesto post-bellico, nessuna categoria sovraordinata può sperabilmente competere con quelle distinzioni che hanno definito il conflitto armato”, e il fallimento del progetto jugoslavo ha lasciato una enorme disillusione nelle identità superiori. Anziché un gioco a somma zero tra identità etnonazionale e civico/statale, l’unica soluzione plausibile è quella di promuovere una doppia identificazione, come membri dell’etnia croata e come cittadini bosniaco-erzegovesi allo stesso tempo, ad esempio.

In secondo luogo, secondo Levy va riconosciuto che “la cittadinanza ha bisogno di identificarsi con lo stato, perché una pace sostenibile possa prendere piede.” Quando le identità più salienti restano definite dalle differenze che segnavano la linea del fronte, costruire coesione sociale significa sostenere l’identificazione della popolazione con lo stato. A tal fine, nel peacebuilding postbellico la comunità internazionale non può permettersi di mettere una contro l’altra l’identità civico/statale e quelle dei suoi sub-gruppi. Va quindi portata attenzione alle potenziali minacce simboliche, poichè “il lavoro dei peacebuilder vi si ritorcerà certo contro quando le persone comuni vedono gli sforzi di costruzione di una identità civica sovraordinata come antitetici alle loro identità di subgruppo”.

L’unica identità bosniaco-erzegovese possibile, a quanto traspare dall’articolo di Levy, è una identità plurale e a più strati, che comprende quelle dei tre popoli costitutivi (serbi, croati, bosgnacchi) – e delle minoranze nazionali, che Levy non cita – ma senza minacciarle, in modo da promuovere una doppia identificazione, con il gruppo e con lo stato. Qualcosa di non troppo diverso, a ben vedere, dalla nostra identità europea come cittadini dell’UE, legata a doppio filo e dipendente da quella di cittadini di ciascuno stato membro, e da essa non separabile. Una serie di identificazioni sovrapposte  – ciò che l’intellettuale sloveno Aleš Debeljak chiama il “palinsesto” o la “pergamena” dell’identità – che neutralizza e rende innocue, ricomprendendole, le pretese totalitarie di ogni identità singola.

Foto: Il Ginnasio di Mostar. Craig Paterson, Flickr

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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