BOSNIA: Doppia crisi di governo. Tra rimpasti e "auto-sfiducie"

In Bosnia-Erzegovina è ancora tempo di crisi di governo. Ma questa volta non si tratta dell’esecutivo nazionale, quello che non fu possibile formare durante quindici mesi (dall’ottobre 2010 al gennaio 2012), ostaggio del disaccordo tra i principali partiti, ma soprattutto degli effetti perversi del sistema post-Dayton. Nelle ultime settimane sono invece caduti i governi delle due entità che compongono il paese, ovvero la Federazione di BiH e la Republika Srpska. Le due crisi si siano aperte quasi in successione, ma sono assai distinte per cause, caratteristiche e conseguenze. Vediamo perché.

Federazione: l’ “auto-sfiducia” di SDP

Il governo della Federazione, presieduto dal socialdemocratico Nermin Nikšić e in carica dall’aprile 2011, è stato sfiduciato dalla Camera dei Rappresentanti (il ramo basso del Parlamento) il 12 febbraio. Le radici di questa crisi rimontano al giugno 2012, quando il Partito Socialdemocratico (SDP, multietnico) ruppe la storica alleanza con il Partito d’Azione Democratica (SDA, bosgnacco conservatore). Il leader dei socialdemocratici Zlatko Lagumdžija optò per un improvviso giro a 180 gradi delle alleanze. Fuori l’SDA e due partiti minori (HSP e NSRB), dentro i due partiti nazionalisti croati (HDZ e HDZ 1990) e i bosgnacchi di SBB, il movimento fondato da Fahrudin Radončić, magnate bosniaco e proprietario del quotidiano Dnevni Avaz.

Il governo di Nikšić era composto dalla vecchia alleanza SDP-SDA. Una volta andata in frantumi quest’ultima, nel maggio 2012, il premier cercò di rimanere in sella anche con il formarsi della nuova e inedita maggioranza. Ma c’era un problema: gli otto ministri appartenenti ai partiti esclusi (SDA, HSP e NSRB) sono rimasti nel governo, rifiutandosi di lasciare i rispettivi incarichi, nonostante l’esplicito invito alle dimissioni da parte del premier Nikšić. Quest’ultimo, però, non ha il potere costituzionale di revoca dei dicasteri. L’unico ad avere questa facoltà sarebbe il Presidente della Federazione Živko Budimir, il quale però non l’ha esercitata in quanto appartiene a uno dei partiti “esclusi” (l’HSP).

Sono così seguiti mesi di pressioni e ostruzionismi reciproci. Fino alla seduta del 12 febbraio, quando la Camera dei Rappresentanti della Federazione ha votato la sfiducia al governo Nikšić, in quanto “non rispecchia più la realtà parlamentare”. Per fare un po’ d’ordine, la “nuova” maggioranza (SDP + HDZ + SBB) ha sfiduciato il “vecchio” governo (SDP + SDA + HSP e NSRB). Si noti, quindi, che l’SDP ha sfiduciato… se stesso (!) pur di non fare rassegnare al proprio premier Nikšić le dimissioni, e di forzare i ministri dell’SDA ad uscire dal governo ed attribuire a loro la responsabilità della crisi. “Può sembrare spiacevole, ma adesso mi sento più sollevato. […] Non si poteva lavorare in questo ambiente”, ha dichiarato Nikšić, rarissimo caso di primo ministro sfiduciato volontariamente dal proprio stesso partito.

L’SDA è stato l’unico partito a votare contro la sfiducia al governo, sostenendo per bocca del capogruppo Adil Omanović che “questo è incostituzionale”. Secondo Sanjin Halimović, ministro per lo sviluppo in quota SDA, non vi sarebbe stato nessun motivo per aprirne la crisi: “L’esecutivo stava funzionando bene, […] noi non abbiamo fatto nessuna ostruzione”. La mossa successiva dell’SDA è stata dunque quella di esigere l’intervento della Corte Costituzionale nazionale: la sfiducia contro il governo violerebbe infatti “gli interessi vitali del popolo bosgnacco”. Si attende dunque la decisione della Corte, che pochi mesi fa si espresse per un caso molto simile, in seguito all’esclusione dei ministri dell’SDA dal governo nazionale. Lo stesso partito impugno’ il fatto di fronte alla Corte, la quale sancì che la vicenda non era da interpretarsi come una violazione degli interessi nazionali, in quanto ministri bosgnacchi sarebbero stati sostituiti da altri ministri bosgnacchi. Resta da vedere se la Corte utilizzerà lo stesso criterio o vi saranno altri colpi di scena. In attesa della decisione, il governo della Federazione rimane in un limbo legale-istituzionale: non può esercitare il pieno dei suoi poteri, ma allo stesso tempo non e’ confermata la sfiducia.

Repubika Srpska: il rimpasto pilotato

La recente crisi di governo in Republika Srpska sembra una vicenda meno intricata, e peraltro si è svolta (e risolta) rapidamente. Il governo presieduto da Aleksandar Džombić, in carica dal dicembre 2010, si è dimesso la scorsa settimana. Alla base della decisione vi sarebbero dei disaccordi tra il premier e il presidente Milorad Dodik, entrambi appartenenti allo stesso partito (SNSD, Alleanza dei socialdemocratici indipendenti, su posizioni nazionaliste serbe). Secondo alcune fonti, Dodik avrebbe forzato le dimissioni di Džombić. La mossa del presidente, “padrone” della Republika Srpska dal 2006, parrebbe l’estremo tentativo di riallineare governo e partito attorno alla propria figura, in vista delle prossime elezioni (si voterà nel 2014, salvo elezioni anticipate) che si preannunciano assai difficili per l’SNSD. Dopo sette anni di potere semi-assoluto, infatti, il consenso per il partito di Dodik sembra scricchiolare, come dimostrato dalle recenti elezioni amministrative che hanno visto il trionfo del principale partito d’opposizione, il Partito Democratico Serbo (SDS). Dodik ha già indicato il, anzi la sostituta di Džombić. Si tratta di Željka Cvijanović, già ministra delle relazioni economiche nel precedente governo e considerata una fedelissima del Presidente.

Governa l’impasse

La crisi di governo nella Republika Srpska sembra dunque una mini-crisi “ordinaria”, un canonico rimpasto dell’esecutivo che obbedisce alle necessita’ strategiche ed agli equilibri interni del partito al potere. Diversa appare la situazione nella Federazione. Il voto di sfiducia e il successivo ricorso alla Corte prolungano, e aggravano, una paralisi istituzionale iniziata otto mesi fa. È l’ennesimo esempio di un quadro istituzionale che non può funzionare, per via delle norme intricatissime, che implicano complessi calcoli di maggioranze incrociate e lasciano il terreno ad opposti poteri di veto. E questo si accompagna ad un sistema partitico centrato su interessi particolari e sulla logica etno-nazionale. Così, la Bosnia-Erzegovina continua ad essere governata dall’impasse.

Foto:  Izbor za bolji zivot, Flickr

Chi è Alfredo Sasso

Dottore di ricerca in storia contemporanea dei Balcani all'Università Autonoma di Barcellona (UAB); assegnista all'Università di Rijeka (CAS-UNIRI), è redattore di East Journal dal 2011 e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Attualmente è presidente dell'Associazione Most attraverso cui coordina e promuove le attività off-line del progetto East Journal.

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