Il 4 maggio 1980 moriva Tito

Il 4 maggio 1980, Jozip Broz, detto Tito, presidente della Repubblica federale socialista jugoslava, si spegneva a Lubiana. Dopo di lui la Jugoslavia ha conosciuto un periodo di conflitti senza precedenti sul suolo europeo dalla Seconda Guerra mondiale. A trent’anni dalla sua morte è tempo di fare bilanci sull’eredità lasciata dal Maresciallo Tito.

Josip Broz Tito ha salvaguardato l’unità della Jugoslavia, un paese creato a tavolino nel 1918, all’indomani del disgregarsi dei grandi imperi, nato dapprima come regno poi, dal 1945, divenuta Repubblica federale. “Jugoslavia” significa, appunto, “terra degli slavi del Sud” e davvero questo Paese ha rappresentato un melange etnico, confessionale e linguistico.  Alla morte del Maresciallo le tensioni latenti esplosero nelle guerre balcaniche degli anni ’90.

Quelle tensioni, dunque, erano attive già durante la dittatura socialista, una dittatura che seppe però evitare il massacro etnico. Oppure lo generò. La figura di Tito è oggetto di controverse analisi storiche, il suo slogan fu “fraternità ed unità” ed effettivamente, in almeno due casi, seppe stemperare le tensioni crescenti nel paese. Nel 1971 le prolungate proteste degli studenti croati, nell’onda lunga del ’68, animarono quella “primavera croata” che Tito, invece di osteggiare, fece propria rinnovando buona parte della classe dirigente della Repubblica (tranne, ovviamente, se stesso) e garantendo maggiori libertà civili. Del 1968 fu anche la rivolta dei kosovari che, ritenendo insufficienti le autonomie concesse da Belgrado, ne chiedeva in misura maggiore anche per la particolare connotazione etnico-religiosa della regione. Il Kosovo era (ed è) a maggioranza albanese e musulmana e la Federazione jugoslava offriva ampie autonomie alle minoranze.

Attraverso la politica delle autonomie, il potere centrale jugoslavo riusciva a tenere insieme realtà eterogenee. Ma insieme alla “carota” dell’autonomia c’era il “bastone” del regime. Senza l’oppressione e la repressione del dissenso la Jugoslavia difficilmente sarebbe rimasta unita. Con la violenza, dopo la morte di Tito, si è divisa.

Eppure Tito è sinonimo di Jugoslavia, ancora oggi vive nel ricordo dei nostalgici come il  leader che ha saputo garantire la pace nella regione. E non si tratta di una minoranza di persone: la crudeltà della guerra ha edulcorato la memoria del dittatore portandolo paradossalmente ad avere oggi più supporters di allora. Ai suoi funerali erano presenti tutti i maggiori uomini di stato, proprio coloro che poco dopo scateneranno l’inferno della guerra.

Raif Dizdarević era uno di quelli. Partigiano socialista e titino della prima ora, fu l’ultimo ministro degli Esteri della Jugoslavia unita, eppure -nel criticare la riforma costituzionale voluta dal Maresciallo nel 1974– indica in Tito il responsabile delle guerre balcaniche degli anni Novanta. Quella riforma infatti, oltre a fare del Maresciallo il presidente “a vita” del paese, garantiva maggiori autonomie agli stati membri della Federazione. Questo perché in Slovenia e Croazia -i due membri più ricchi- montava un malcontento che avrebbe potuto anche risolversi in violenza. Per scongiurarla, la pressione fiscale nei confronti dei due Paesi diminuì ma mancarono -questa l’opinione di Didzarevic- misure a sostegno dei membri più deboli. Il divario economico presto alimentò il nazionalismo, che portò alla guerra di cui Tito sarebbe, allora, diretto responsabile.

Divergenze che oggi non sono solo materia per accademici. La guerra ha lasciato il suo segno creando un nuovo equilibrio etnico, una volta terminata. Un equilibrio che non sappiamo quanto si possa ritenere stabile. La Bosnia, che vedeva convivere all’epoca di Tito, croati, serbi e musulmani, oggi è un paese a maggioranza musulmana. Le moschee di Sarajevo vengono finanziate da Teheran, con evidenti ricadute (geo)politiche. I serbi di Bosnia vivono nel loro “stato nello stato”, quella Repubblica Srpska nata dopo gli accordi di Dayton del 1995.

Lo sforzo da compiersi, ora, è quello di costruire una memoria condivisa, capace di superare le barriere dei nazionalismi, facendo dell’esperienza della guerra un patrimonio storico comune. Di questa memoria condivisa dovrà fare parte anche la figura di Tito e le sue responsabilità politiche.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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