SERBIA: Ancora proteste a Belgrado, ma Vučić piace all’occidente

C’è un’ampia zona grigia tra democrazia e dittatura. In Serbia, dentro quella zona grigia, il presidente Aleksandar Vučić ci sguazza. No, in Serbia non c’è la dittatura, come sostengono le opposizioni e i manifestanti che da settimane scendono in piazza a Belgrado per protestare contro la politica del governo. Ma c’è un soffocante controllo sui media che ormai trabocca nella censura, c’è un sistema partitocratico che erode lo stato di diritto e limita l’indipendenza del sistema giudiziario, c’è una povertà crescente e una crescente disuguaglianza sociale, c’è un potere che non si cura dell’opinione dei cittadini e porta avanti progetti faraonici (e dispendiosi) come il progetto “Belgrado sull’acqua” e, soprattutto, c’è un diffuso clima di intimidazione verso il dissenso.

Un potere incappucciato

L’esempio più eclatante è stato il caso Savamala. Nella notte del 25 aprile del 2016 un gruppo di uomini incappucciati, su automobili senza targhe e muniti di mazze, hanno cominciato a fermare i cittadini del quartiere di Savamala, costringendoli a scendere dalle macchine, impossessandosi dei loro documenti d’identità e cellulari. Chi erano? Nessuno lo sa, anche perché le autorità impediscono un’indagine trasparente. La stampa indipendente ha suggerito che le responsabilità di quanto accaduto vadano ricercate in alcuni esponenti del governo, specialmente nel ministro dell’Interno, Nebojša Stefanović, ma la censura di stato ha impedito qualsiasi inchiesta giornalistica. I media non hanno dato visibilità alla vicenda. Gli stessi media che da settimane ignorano le proteste. Eppure non si tratta di “tremila persone”, come affermato dallo stesso Stefanović, ma di decine di migliaia che, ogni settimana, invadono le strade di Belgrado. E Belgrado sa che il governo mente. Lo vede dalle sue finestre. Belgrado sa che i manifestanti non sono agenti stranieri, come sostenuto dal governo che, nel miglior stile autoritario, demonizza l’avversario politico.

La classe media in rivolta

E l’avversario politico del governo sono i cittadini. Sono quella classe media in rivolta stanca delle bugie di Vučić, della violenza in passamontagna, del controllo sui media. Sono anche studenti e professori, professionisti e intellettuali. Gente di città, la stessa gente che dal 1991 al 2000 manifestò incessantemente contro Milosevic (ed ebbe in premio le bombe Nato sulla propria testa, ma questo è un altro discorso). Come ai tempi di Milosevic, la radice del potere è nell’ignoranza della provincia serba, nella (costruita ad arte) opposizione tra città e campagna. Nella volontà di mettere serbi contro serbi, fedele al vecchio motto del divide et impera. Tuttavia la società serba è molto più complessa di così, le linee di faglia scorrono trasversalmente, unendo e dividendo gli animi in modi sempre meno prevedibili, come ben descritto su queste colonne da Giorgio Fruscione. Il consenso per Vučić è ancora molto alto nel paese proprio perché il presidente, lungi dall’essere amato, è abilissimo a mettere i serbi gli uni contro gli altri. L’allargamento delle proteste ad altre città può forse spezzare l’incantesimo di un presidente che, dalla televisione, continua a dire che “non si è mai stati così bene in Serbia“.

Il silenzio delle democrazie

Le proteste, oscurate dai media, insultate dai governanti, minacciate dalla crescente violenza sociale, rischiano di cadere nel vuoto malgrado la testarda cadenza settimanale con cui vengono organizzate. Senza un appoggio internazionale sarà difficile riportare Vučić a più miti consigli. E Washington e Bruxelles continuano a sostenere il presidente, l’uomo che dichiarò che “per ogni serbo ucciso ammazzeremo cento musulmani” continua a essere il campione delle democrazie occidentali.

La zona grigia tra democrazia e dittatura si può abitare perché le democrazie stesse lo consentono in nome di una real-politik che, per quanto logica conseguenza dei delicati equilibri internazionali e regionali, si mostra ipocrita nel condannare solo alcuni satrapi locali – Orban, Kaczynski – e non altri.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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