BOSNIA: Presidenza al via, governo al palo

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da OBC Transeuropa 

I tre neoeletti presidenti della Bosnia Erzegovina hanno fatto giuramento e sono entrati in funzione lo scorso 20 novembre. Per coincidenza, è proprio nei giorni in cui ricorre l’anniversario degli accordi di Dayton. Durante la cerimonia di insediamento, “Dayton” si ascoltava continuamente, nelle formule di rito e nei discorsi dei neo-presidenti, come a ribadire un senso di immobilità del tempo politico nel paese. Mentre si attende ancora la formazione del governo statale, il mandato della presidenza collettiva inizia senza grandi aspettative di cambio.

Šefik Džaferović, Željko Komšić e Milorad Dodik rappresentano visioni distinte sul futuro del paese, e i loro profili personali non sembrano dei più utili in una istituzione che è di compromesso per definizione. Džaferović (SDA, conservatori musulmani), delfino del predecessore Bakir Izetbegović, non sembra avere particolare autorevolezza né idee innovative. Komšić (DF, centrosinistra civico) è al suo terzo mandato presidenziale e ha vinto le elezioni come espressione di un “voto contro” ai danni del proprio avversario tra i candidati croati, il nazionalista Dragan Čović. Infine Milorad Dodik (SNSD, conservatori serbi) continua ad accentrare l’attenzione con il suo discorso aggressivo e provocatorio verso l’unità del paese.

Nelle ultime settimane Dodik è stato protagonista di diversi interventi fuori protocollo, di certo non una novità per un personaggio che, in dodici anni di potere nella Republika Srpska (una delle due entità che compongono il paese) è abituato a alzate di tono. Queste ultime però producono un altro effetto ora che giungono dal vertice più alto del potere statale, che Dodik in persona non aveva mai occupato – anche se vi era arrivato il suo collega di partito Nebojša Radmanović, dal 2006 al 2014 –.

Nell’ordine, Dodik ha fatto aprire un ufficio separato nella municipalità di Sarajevo Est (la conurbazione di Sarajevo che si trova nel territorio della Republika Srpska), affermando che intende esercitare il proprio mandato da lì e non nella sede ufficiale della presidenza nel centro della capitale, e sempre con la bandiera della Republika Srpska davanti a quella statale. Ha affermato che non userà il passaporto bosniaco per i viaggi ufficiali (possiede infatti anche quello serbo), insistendo di non riconoscersi come bosniaco e di guardare esclusivamente alla Serbia come proprio paese. Ha aperto una mini-crisi diplomatica con l’Austria, dopo uno scambio infuocato con l’ambasciatore di Vienna in Bosnia Erzegovina, Martin Pammer: in una lettera pubblica, Dodik ha accusato Pammer di ingerenza “pro-bosgnacca” e di ostacolo alla reputazione della Republika Srpska, mentre l’ambasciatore austriaco ha risposto lamentando la preoccupazione di diplomatici e investitori stranieri di fronte agli atteggiamenti aggressivi del leader serbo-bosniaco.

Dodik prosegue così con la sua condotta tipicamente metapolitica, tutta concentrata in gesti di principio e dichiarazioni di identitarismo, ma con pochi riferimenti concreti a ciò che realmente vuole, può (e non può) fare con i poteri di cui dispone. Le facoltà della presidenza collettiva infatti si concentrano nella difesa, nella politica estera, nella nomina e nel coordinamento dei vertici di agenzie statali (in primis la Banca centrale e l’Agenzia per la Sicurezza. Dodik per ora ha evocato un generico repulisti dei funzionari serbi nei diversi enti), ma sono solo di limitato indirizzo politico in tutti gli altri ambiti. I poteri presidenziali, soprattutto, richiedono generalmente il consenso, o in alcuni casi la maggioranza, dunque due voti sui tre.

Sui nodi chiave della politica estera, la divisione è netta. Džaferović e Komšić sono esplicitamente a favore dell’integrazione sia nell’UE, sia nella NATO. Dodik è invece freddo sulla prima e esplicitamente contrario alla seconda, ed ha risolutamente chiesto l’abolizione dell’Alto Rappresentante – OHR, il supervisore internazionale che vigilia sul rispetto degli accordi di Dayton, carica che dal 2009 occupa l’austriaco Valentin Inzko, spesso protagonista di durissimi scontri verbali con Dodik -.

Quasi tutti gli analisti prevedono dunque un mandato con pochi progressi nella posizione internazionale nella Bosnia Erzegovina. Negli aspetti interni, come l’approvazione del bilancio e il controllo sugli organi statali, appaiono invece più possibili dei compromessi. Questi saranno tuttavia preceduti da una fase di propaganda e proseguimento della campagna elettorale con altri mezzi, soprattutto finché non si delineerà la situazione del governo statale e della Federazione di BiH, la più grande delle due entità che compongono il paese.

Senza governo

più di sei settimane dalle elezioni, infatti, non vi è ancora l’ombra di un accordo, anzitutto a causa del pasticcio della legge elettorale. La norma che regola l’elezione della Camera alta della Federazione di BiH, in parte annullata dalla Corte Costituzionale nel 2016, non è ancora stata emendata. Resta così un vuoto legale che crea problemi nell’assegnazione dei seggi, quindi nella convocazione stessa delle camere appena elette e, di riflesso, sulla formazione dei governi sia a livello della FBiH che dello stato centrale. Ora la decisione definitiva, attesa in queste settimane, spetta alla Commissione Elettorale Centrale (CIK).

Si aggiunge inoltre uno stallo politico. L’HDZ (conservatori croati), partito che sarebbe il maggiore beneficiario del cambio di legge nel senso indicato dalla Corte, pone la riforma elettorale come precondizione per la formazione del governo. L’HDZ è, realisticamente, un partito da cui è difficile prescindere in una maggioranza di governo e che continua a incassare il fedele sostegno dell’SNSD. L’alleanza croato-serba tra Milorad Dodik e Dragan Čović è stata infatti confermata nel vertice tra i due leader lo scorso 12 novembre, dove si sono impegnati a formare coalizioni “a tutti i livelli”.

Tra cambio e egemonia

Si sta invece smuovendo la formazione dei governi nella Republika Srpska e nei diversi cantoni della Federazione. Uno dei pochi e timidi segnali di alternanza si intravede nel Cantone di Sarajevo. In queste settimane si sta negoziando un accordo tra un sestetto di partiti, alcuni civici di centrosinistra (i socialdemocratici dell’SDP, il Fronte Democratico – DF – e i liberali di Naša Stranka, che nelle ultime elezioni hanno raggiunto il 13%) e di nazionalisti musulmani moderati (tra cui spicca Popolo e Giustizia – NIP – nato da una scissione dell’SDA).

Questa eterogenea alleanza relegherebbe l’SDA all’opposizione per la prima volta dopo 15 anni nel cantone della capitale, il più popolato e ricco del paese, con ampi poteri negli ambiti di welfare e servizi pubblici. L’SDA paga per l’assenza di leadership, la corruzione e i disservizi (basta pensare alla crisi idrica che sconvolse la città nell’estate 2017. Tuttavia resta un’incognita la cospicua presenza di fuoriusciti recenti dall’SDA nell’alleanza che si sta formando, tra cui il leader di NIP ed ex-premier cantonale durante la crisi idrica Dino Konaković, che sembra il favorito per tornare alla guida del governo.

Nella Republika Srpska invece l’SNSD sta scrivendo, a suo modo, un vero manuale di egemonia politica. Forte della netta affermazione alle elezioni, il partito di Dodik ha iniziato a mettere pressione ai partiti alleati e a sedurre quelli di opposizione, imponendo condizioni sfavorevoli ai primi e offrendo poltrone ai secondi nel nuovo governo della RS, che sarà guidato da Radovan Visković. La strategia, condotta in modo drastico – includendo la rimozione istantanea di alti incarichi pubblici in mano agli ormai ex-alleati – ha colto di sorpresa molti. Si sono così spaccati tra favorevoli e contrari alla cooperazione con Dodik sia il principale partito alleato e potenziale ago della bilancia, il DNS, sia il già fragile blocco di opposizione serbo-bosniaca.

Alcune giravolte non smettono di stupire anche chi conosce bene la politica bosniaca e la sua sostanziale assenza di stabili fedeltà ideologiche e strategiche. Tra i nuovi partner di Dodik c’è Zdravko Krsmanović, l’ex-sindaco di Foča che alcuni anni fa era emerso addirittura come la grande speranza anti-nazionalista in Republika Srpska. Krsmanović ha innumerevoli volte definito Dodik il “capo di un’organizzazione criminale” che “diffonde l’odio”, e un anno fa pronunciava una frase diventata memorabile: “[Dodik] finirà nel carcere di Foča, abbiamo preparato una cella VIP apposta per lui”. Oggi invece lo loda perché “è sempre stato per la democrazia parlamentare e i valori europei”.

L’egemonia è tale che l’attuale maggioranza può puntare ai due terzi nel parlamento della Republika Srpska. È una quota che permette di modificare la costituzione dell’entità e, soprattutto, di blindare i poteri di veto del membro serbo della presidenza, dunque di Milorad Dodik, anche nei casi in cui i suoi due omologhi votassero a maggioranza contro di lui. Diversi osservatori mostrano preoccupazione per l’assenza di contrappesi alla concentrazione di potere dell’SNSD in Republika Srpska. Per altro verso, la disfatta definitiva dell’opposizione serbo-bosniaca potrebbe aprire la strada finalmente a una nuova generazione di leader e, forse, a una alternativa reale al sistema di Dodik. Ma ci vorrà probabilmente molto tempo.

 

Immagine: balkaneu.com

Chi è Alfredo Sasso

Dottore di ricerca in storia contemporanea dei Balcani all'Università Autonoma di Barcellona (UAB); assegnista all'Università di Rijeka (CAS-UNIRI), è redattore di East Journal dal 2011 e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Attualmente è presidente dell'Associazione Most attraverso cui coordina e promuove le attività off-line del progetto East Journal.

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