ISRAELE: Tra Gaza e il futuro. Se la crisi turca portasse alla pace

Il nuovo Nasser

“I leader di Israele hanno sbagliato nell’interpretare la realtà circostante, hanno perso i loro sostenitori, anche negli Usa”. Così il premier turco Erdogan, senza mezze parole, stigmatizza il governo di Tel Aviv dalle colonne del quotidiano egiziano el Shorouk. Proprio quell’Egitto che ieri lo ha accolto “come il nuovo Gamal Nasser“, secondo le parole del Wall Street Journal. Un paragone che nasconde un po’ di malizia: Nasser fu l’uomo che seppe contrastare Gran Bretagna, Francia e Israele per il controllo del Canale di Suez nel 1956. Definire Erdogan il “nuovo Nasser” significa connotarlo anche come antagonista della leadership occidentale che, nella regione, è rappresentata da Israele. 

Israele, un bambino viziato

E con Israele non è tenero il premier turco: “Israele è abituata a non rendere conto dei suoi comportamenti e si considera al di sopra della legge. E poi, col tempo si è trasformata in un bambino viziato, rovinato da chi le sta intorno. Non solo pratica il terrorismo di Stato contro i palestinesi, ma si comporta con arroganza, e si meraviglia se qualcuno la richiama al rispetto delle leggi”.

Il rapporto Palmer non è legge

Leggi internazionali che nulla c’entrano con il recente rapporto Palmer, rigettato da Ankara, che in modo cerchiobottista critica un po’ la Turchia e un po’ Israele riservando però a quest’ultima un trattamento di favore dichiarando legittima l’occupazione di Gaza. Ora, questa “legittimità” non è sancita all’Onu poiché il rapporto Palmer non è un rapporto ufficiale dell’Onu ma un “Panel“: per essere ufficiale deve venire adottato attraverso il voto di uno degli organi (o delle agenzie dell’organizzazione) delle Nazioni Unite. Lo stesso rapporto lascia perplessi dal punto di vista del diritto internazionale stesso, si legga quest’analisi di Chantal Meloni, ricercatrice di Diritto Penale a Milano. Insomma, la Turchia non ha compiuto alcun abuso nel rifiutare le conclusioni del Panel.

La causa comune turco-araba

Le dichiarazioni turche sulla Palestina sono coraggiose, la sfida di Erdogan è epocale: raggruppare intorno ad Ankara i principali Paesi della regione, sfruttando la nascita dei nuovi regimi sorti a seguito delle primavere arabe, e costringere Israele a sedere al tavolo con i nemici di sempre. Proprio ieri, al Cairo, Erdogan ha parlato di una “causa comune” che deve unire turchi e arabi. Simbolo di questa causa comune è la Palestina. La sfida, favorita dalla debolezza iraniana e dal disimpegno americano nei confronti di Israele, si scontra con l’ottusità dell’amministrazione Obama. Il presidente americano, nobel per una Pace che non ha per nulla favorito, ha dichiarto il 9 settembre scorso che “gli Stati Uniti porranno il veto Gli Stati Uniti a un tentativo (previsto per il 20 settembre prossimo, ndr) dei palestinesi di ottenere il riconoscimento del loro Stato all’Onu”. Barack Obama mostra così di essere un presidente americano in linea di continuità con i suoi predecessori, pur nella moderazione: il riconoscimento dello Stato palestinese, sotto l’avallo americano, sarebbe un gesto di portata storica e farebbe entrare Obama nei libri di storia non solo per il fatto di essere il primo nero alla Casa Bianca.

Israele tra Gaza e il futuro

Israele intanto è sempre più isolata, ma per sua stessa mano. La speranza di un cambiamento però c’è. Israele è ora sottoposta alla pressione di due forze: l’una esterna (che chiede a Israele una nuova politica nei confronti di Gaza e dei paesi arabi) e l’altra interna: un forte movimento di opposizione giovanile sta mettendo in discussione la struttura stessa dello stato d’Israele. Questi giovani “indignati” chiedono democrazia in un paese senza Costituzione in cui il Diritto è fondato sul Talmud. Uno stato  di diritto ma a vocazione teocratica ed etnica. Uno stato in crisi sociale ed economica. Si parla troppo poco di loro ma erano 400 mila in piazza a Tel Aviv lo scorso 4 settembre.

Sotto la pressione di queste due spinte il vecchio establishment conservatore, la vecchia Israele aggressiva, bellicosa, militarizzata, l’Israele dei muri e di piombo fuso, l’Israele che obbliga alla leva giovani studenti, l’Israele spaventata e arrogante, potrebbe finire. Ci vorrà tempo, ma le spinte riformatrici arabe e israeliane potrebbero incontrarsi a metà strada. Obama permettendo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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7 commenti

  1. Modeste domande:
    Quale delle due Palestine deve essere riconosciuta?
    Se Israele non é democratica che cosa si intende per democrazia?
    Emilio Bonaiti

    • Mi deve scusare, non ho capito la prima domanda.
      Per la seconda, proverò a rispondere per quanto anche lei si renda conto che non è possibile in così poche righe. Il sistema rappresentativo è la conditio sine qua non della democrazia che, però, non si riduce a questo. Una Costituzione democratica è fondamentale per uno stato di diritto. Israele non ha la Costituzione. Se ce l’avesse dovrebbe garantire eguali diritti a tutti i cittadini e rispetto delle confessioni altrui. Israele è definibile come “stato etnico” nella misura in cui il diritto favorisce una particolare componente sociale a base etnica anche se, in questo caso, è preponderante l’elemento religioso. Il sistema di diritto israeliano, senz’altro avanzato (un misto tra common law e civil law) è però fondato sul talmud che è testo ortopratico dei soli ebrei. Una società laica e plurale è necessaria a una democrazia avanzata. Su questo aspetto Israele ha molto da fare.

      • Sono d’accordo; bisogna sperare nella progressiva “costituzionalizzazione” del diritto israeliano, che è in corso. Avere una costituzione scritta e formale non è un requisito necessario (vedasi UK e Svezia), ma bisogna che ci sia il rispetto dello stato di diritto (rule of law), con l’eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini di fronte alla legge, e il rispetto dei diritti umani e libertà fondamentali tali che definite nella Dichiarazione Universale del 1948, e specificati nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

        Per un approfondimento consiglierei:
        http://en.wikipedia.org/wiki/A_Jewish_and_Democratic_State
        http://en.wikipedia.org/wiki/Ethnic_democracy

  2. la democrazia? uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in Israele, paradossalmente, hanno dei diritti persino dei non cittadini – il cosiddetto ‘diritto al ritorno’ – solo in base all’appartenenza etnoreligiosa): e non mi sembra un concetto particolarmente difficile da capire…

  3. Bell’articolo. Penso anche io che Erdogan stia puntando a una sorta di nuovo Impero Ottomano moderno, dove l’influenza e il “controllo”, se così lo vogliamo chiamare, sarà non più militare, ma diplomatico. Per questo si dovrà scontrare, sempre diplomaticamente, con l’Iran che ha la stessa ambizione (essere il paese leader del Medioriente) e con Israele, che sicuramente non vede di buon occhio le intenzioni dell’ex alleato.

    Sulla possibilità riformatrice israeliana, ci spero, ma francamente ci credo poco. Conosco abbastanza bene la storia di Israele per sapere che l’establishment farà di TUTTO per evitare riforme che possano mettere in discussione i loro obiettivo politico-militari.

    Sulle domande di Emilio Bonaiti: riguardo la secondo ha ricevuto già esurienti e condivisibili risposte. Sulla prima, forse lei intende riferirsi alle di fatto due parti della Palestina governate da entità diverse (Gaza da Hamas e la Cisgiordania da Fatah). Beh, le posso rispondere che innanzitutto se non si riconosce uno Stato è poi difficile accettare le elezioni conseguenti. Punto secondo, una volta riconosciuto bisognerebbe lasciare la popolazione palestinese tutta poter decidere del loro destino. E in terza e più importante battuta, bisogna DOVER riconoscere poi l’esito delle elezioni, qualunque esso sia. Non solo se vincono i nostri amici o chi piace a Usa e Israele.

    Cordiali Saluti.

  4. Chiedo scusa per le mie difficoltà nell’esprimermi. Quando si parla dell’ammissione della Palestina all’ONU vien da domandarsi a quale dei due stati palestinesi, ‘l’un contro l’altro armato’ ci si riferisce.
    Grazie per il chiarimento.Emilio Bonaiti

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