RUSSIA: Alla ricerca di un posto al sole in Africa

Diversi i volti noti di coloro che hanno partecipato alla quarta cerimonia di insediamento di Vladimir Putin sullo scranno della presidenza russa. Non ha stupito la nutrita, ovvia presenza degli affiliati al panorama istituzionale domestico – dagli alti prelati agli artisti di regime, passando per i membri di Amministrazione e Parlamento. Che fosse per lavoro o dedizione, la loro presenza era da darsi per scontata.

Meno scontata e anzi notevole è stata invece la partecipazione di un gruppo di Capi di Stato africani. I presidenti di Angola, Egitto, Namibia, Sudafrica, Sud Sudan e Zimbabwe hanno ritenuto necessario sorvolare (almeno) due continenti per porre i propri omaggi a Putin e alla Russia in una occasione così pregna di simbolismo. L’atto segnala chiaramente un forte legame tra Mosca e questi Paesi, un legame che vale la pena di esplorare e scorporare per meglio comprendere quale sia lo spettro della politica estera russa al di fuori dei suoi confini di interesse tradizionali.

Tra storia e attualità: la presenza russa in Africa

Le radici storiche dell’odierna presenza russa nel in Africa affondano negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando la competizione bipolare rese l’Egitto terreno di scontro tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Priva dei vantaggiosi retaggi coloniali di cui l’Occidente poteva godere, Mosca si inserì nel contesto africano sfruttando due maggiori vettori: quello ideologico e quello militare. Da un lato, la dottrina marxista-leninista si prestava molto bene a sostenere il discorso emancipatorio portato avanti da numerosi leader africani, desiderosi di liberare i propri popoli dal giogo del colonialismo – o più semplicemente consolidare il proprio potere. Dall’altro lato, l’invio massiccio di armamenti forniva il volume di fuoco utile a supportare o imporre quelle stesse rivendicazioni. In cambio, l’Unione Sovietica guadagnava importanti concessioni politiche ed economiche.

Seguendo questa strategia, l’influenza sovietica si espanse a tutto il Maghreb tra gli anni Sessanta e Settanta, per poi raggiungere ampie porzioni dell’Africa centrale e meridionale entro i primi anni Ottanta. Si stima che più di 25.000 africani abbiano studiato in università sovietiche e i contributi in armamenti – per quanto risibili se confrontati a quelli in favore del Patto di Varsavia – raggiunsero cifre milionarie. Per ovvi motivi il crollo dell’Unione Sovietica segnò una netta battuta d’arresto anche per il partenariato con l’Africa, il cui volume di scambio si contrasse fino a quasi sparire già nel biennio 1991-1992. Sarà a partire dal 2000, con la prima presidenza di Vladimir Putin, che l’impegno di Mosca in Africa troverà rinnovato vigore, beneficiando del processo di rilancio interno e internazionale della Russia attuato dalla nuova Amministrazione.

La Russia post-bipolare ha ristabilito la propria presenza in Africa a partire da quei territori ove già il predecessore sovietico aveva coltivato forti legami. All’Egitto e agli stati maghrebini si è gradualmente aggiunto il recupero dei rapporti con paesi quali Camerun, Ghana, Nigeria, Sudafrica e molti altri, sempre fondamentali per l’estrazione di risorse energetiche e minerarie. Le compagnie Alrosa, Gazprom e Lukoil sono state usate quali strumenti di penetrazione nel continente. Seguendo la consueta strategia di allineamento tra interessi pubblici e privati, Mosca è così riuscita a (ri)ottenere concessioni miliardarie in ambito estrattivo ed infrastrutturale, nonché nuovi contratti di assistenza militare – principalmente sotto forma di fornitura d’armi ed invio di istruttori o consiglieri militari.

La prima parte di questo 2018 ha registrato una certa vivacità nelle relazioni bilaterali tra Russia e partner africani. All’inizio del mese di marzo il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha fatto visita a cinque diversi Stati africani (Angola, Etiopia, Mozambico, Namibia e Zimbabwe), comunicando ad ognuno l’impegno di Mosca a sostenerne lo sviluppo socio-economico e la stabilità politica, così come la volontà di lanciare nuove forme di cooperazione. Nel mese di giugno Lavrov ha invece fatto tappa in Ruanda, in occasione del 55° anniversario dell’avvio delle relazioni tra i due Paesi. Il Ministro ha osservato come ad oggi più di 500 studenti locali si siano laureati presso università russe, segnalando ancora una volta i forti legami di tipo educativo-culturale che intercorrono con l’Africa, in continuità con il modus operandi sovietico. Più recentemente, anche Putin si è pronunciato in merito alla volontà e necessità di garantire “assistenza allo sviluppo” per l’Africa; l’attenzione verso questo continente è in crescita anche nel contesto multilaterale dei BRICS.

Gli obiettivi di Mosca: vantaggi militari, guadagni economici e sviluppi sistemici

Tre obiettivi interconnessi sono sottesi allo sforzo russo nel continente africano. Come già in epoca sovietica, il primo di questi concerne lo sviluppo di accordi militari che possano garantire teste di ponte, leve politiche o – al minimo – un ritorno economico. E’ scarsamente probabile che Mosca riesca nell’impresa di riaprire quelle basi che aveva stabilito prima del 1991 in Angola, Egitto, Etiopia, Libia e Tunisia – la ragione essendo semplicemente che il Cremlino giunge in ritardo nella corsa all’Africa. Come dimostra il fallimento in Gibuti, Occidente e Cina godono di una più radicata presenza in loco e sono determinati ad evitare che la competizione si allarghi a nuove parti. Cospicui contratti di fornitura armi e formazione militare sono però certamente alla portata della Russia. Un mero 13% delle esportazioni militari russe è destinato all’Africa, ma le stime di crescita del mercato regionale la rendono un buon investimento di lungo termine. Tra 2007 e 2017, ben 21 miliardi di armi sono stati venduti dalla Russia a 15 diversi Stati africani. L’Egitto rappresenta il partner migliore in questo senso: dal 1990 ad oggi i due Paesi hanno stretto circa 30 contratti militari, con i quali Mosca ha fornito al Cairo anche missili terra-aria e relativa tecnologia.

Il secondo obiettivo riguarda il consolidamento e l’espansione di una rete di legami economici che assicuri alla Russia al contempo influenza nei processi locali, fonti di guadagno e accesso a risorse naturali di valore strategico – quali petrolio, gas e minerali di primaria importanza sia industriale, sia militare. Alcuni di questi minerali non sono particolarmente diffusi in Russia, il che spiega la penetrazione in paesi come Angola, Namibia e Zimbabwe per mezzo di varie compagnie a compartecipazione statale. Risulta però meno intelligibile il motivo per cui la Russia – paese ricco di fonti di energia fossile – debba andare a cercare in Africa petrolio e gas.

La ragione è di natura gran-strategica e rispecchia una visione a somma zero della competizione internazionale. Nell’ottenere diritto di gestione su alcune risorse africane, Mosca non genera soltanto un beneficio diretto per se stessa, a favore del proprio sviluppo, ma priva al contempo gli altri attori internazionali dell’opportunità di fare altrettanto. Ponendo che le risorse del continente siano finite, ogni risorsa in più sotto controllo dell’uno è anche una risorsa in meno disponibile all’altro. La Russia mira ad essere quell’uno, così ostacolando i tentativi di diversificazione energetica dei propri clienti europei e penalizzando competitori come Stati Uniti, Cina e India nella scalata della gerarchia internazionale. L’obiettivo di essere un polo del futuro sistema multipolare è sempre ben saldo nell’orizzonte strategico russo e anzi dà forma all’intero ventaglio di scelte di politica estera compiute dal Cremlino.

Una metodologia eclettica…

Nell’attuare il proprio piano per l’Africa, la Russia utilizza un insieme di strumenti che, agendo su piani diversi ma coerenti, mirano a facilitare il dialogo e i negoziati con i partner. Sicuramente notevole in tal senso è stata la cancellazione dei più di 20 miliardi di dollari in debito accumulati da un insieme di Stati africani nei confronti di Mosca. La decisione è stata chiaramente accolta come una manna dagli interlocutori africani, ripagando la Russia in termini di immagine pubblica e stimolando la disponibilità altrui a scendere a patti su concessioni di vario genere. Questa mossa fa parte di una più ampia manovra politica e retorica che mira a presentare la Russia come il vero benefattore dell’Africa, a differenza di un Occidente sempre egoista e sfruttatore. Sarebbe l’Occidente a voler portare instabilità nel continente per continuare a trarne vantaggi (post)coloniali e non Mosca, la quale avrebbe invece a cuore l’autonomia e la prosperità dei partner africani.

La stessa retorica sostiene ed è sostenuta da altri due corsi di azione. Da un lato, come già accennato, il Cremlino investe molto nella formazione della futura classe dirigente africana, come dimostrano i numerosi programmi di cooperazione scientifica ed educativa stipulati, tra gli altri, con Etiopia, Mozambico e Ruanda. Sfoderando una prassi già sovietica, ciò risponde al duplice scopo di confermare le “intenzioni umanitarie” della Russia e predisporre risorse umane locali che – essendo dotate di stretti legami con l’ethos russo – saranno meglio in grado di servire gli interessi di lungo periodo di Mosca nella regione.

Ma il vero fulcro dell’azione russa in Africa è la cosiddetta “no question diplomacy”. Attuando una scelta analoga a quella dell’amico-nemico cinese e in opposizione alla strategia europea della conditionality, Mosca non si cura della natura più o meno autoritaria dei regimi locali, né subordina l’erogazione della propria assistenza a progressi nella tutela dei diritti umani. Il Cremlino non perde occasione nel sottolineare la bontà di questa scelta in confronto alla tendenza occidentale ad applicare forzosi cambiamenti di regime. Come ha recentemente affermato Lavrov, l’Africa necessita di “soluzioni africane”, anche nella scelta dei propri regimi politici. Nel porsi come garante ultimo dello status quo, Mosca non solo guadagna una leva politica indisponibile ai competitori occidentali, ma fornisce anche ai partner africani una fiche negoziale da giocare contro l’Occidente stesso. La promessa di un allentamento dei legami con la Russia, infatti, può servire allo scopo di ottenere maggiori concessioni da parte delle capitali europee.

… ma non priva di limiti

Ad oggi, nonostante la scaltrezza della strategia dispiegata nel continente, la Russia non ha l’Africa in pugno. Il successo della Federazione è tarpato da limiti notevoli che derivano innanzitutto dalle ridotte capacità e risorse di cui essa dispone rispetto ai competitori. Anche se il predecessore sovietico riuscì a inserirsi nel contesto africano e la Russia contemporanea può contare sul ravvivamento di quei legami, essi sono incomparabilmente più flebili e meno significativi rispetto a quelli sfruttabili dalle potenze occidentali. Mentre queste ultime possono utilizzare a proprio vantaggio – nel bene o nel male – legami centennali, il Cremlino può solo riscuotere i premi di una politica africana di breve corso, le cui radici non vanno più in là del Novecento. Per forza di cose la conoscenza delle dinamiche regionali, il radicamento degli interessi e gli asset dispiegabili sono minori e dunque ridotto è il vantaggio comparativo sugli altri attori coinvolti.

Se è vero che l’attuale mancanza di una definita strategia per l’Africa da parte degli Stati Uniti di Donald Trump può favorire la presenza russa sul territorio, con molta probabilità l’eventuale vuoto di potere andrà a favorire maggiormente gli stati europei e la Cina. Mentre per i primi vale quanto detto sopra, Pechino – che al pari della Federazione non fu colonizzatore africano – può invece beneficiarne in virtù del proprio potenziale di mobilitazione. Il capitale umano e finanziario di cui dispone la Repubblica Popolare è nettamente maggiore rispetto a quello della Russia, che è invece trappola delle proprie contraddizioni interne – tra crisi demografica e disequilibri macro-economici.

I persistenti problemi domestici limitano la credibilità della Russia al di là dei propri confini di interesse tradizionali. Per quanto il rilancio della presenza in Africa sia stato in effetti impressionante, è scarsamente credibile che nel futuro esso possa tradursi in uno stravolgimento dell’equilibrio regionale in favore di Mosca. Al di là di quanto elencato, il Cremlino non dispone di altri mezzi con cui farsi strada nel continente. Per quanto la metodologia dispiegata sia funzionale a ristabilire i vecchi legami sovietici ed ottenere le necessarie concessioni economiche, la Russia non potrà spingersi oltre. Esaurita la carta della cancellazione del debito e al di là delle commesse militari o della strenua difesa della “via africana,” il Cremlino può offrire poco altro ai propri partner che già non sia messo sul piatto da Occidente o Cina.

Chi è Nicolò Fasola

Nato nel 1993, è dottorando presso il Dipartimento di Studi Politici e Internazionali dell'Università di Birmingham, nel Regno Unito. In passato ha lavorato presso l'Allied Command Operations della NATO (ACO/SHAPE), l'Istituto di Relazioni Internazionali di Praga (IIR) e l'Ambasciata d'Italia in Estonia. Inguaribile poeta.

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