STORIA: L’invasione della Cecoslovacchia e la fine della Primavera

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Se è vero che nell’estate del 1968, presso gran parte dei cittadini cecoslovacchi, si era sviluppata una psicosi di invasione, che faceva vedere militari e blindati sovietici ovunque, è altrettanto vero che in molti ritenevano improbabile e fantasiosa qualsiasi ipotesi di aggressione.
Anton Ťažký, uno dei segretari del Partito comunista cecoslovacco e amico personale di Dubček, nella notte tra martedì 20 agosto e mercoledì 21 stava viaggiando in automobile verso Bratislava. D’un tratto vide luci insolite e colonne di carri armati, camion e soldati in divise straniere che non riuscì a identificare. Avrebbe a breve scoperto che si trattava di militari ungheresi entrati nel paese da sud. Ťažký rimase un po’ sorpreso, ma pensò: «Stanno girando qualche film». Tornò tranquillamente a casa e si mise a letto. Cinque minuti dopo ricevette una telefonata allarmante che annunciava l’invasione da parte dell’Unione Sovietica e dei quattro paesi alleati.

Il 20 agosto era trascorso come una qualsiasi giornata d’estate. Praga era piena di turisti, molti stranieri, famiglie intere nei parchi e nelle vie del centro. Dubček fu impegnato tutto il giorno in una riunione di presidenza del Comitato centrale che si protrasse fin dopo l’ora di cena. Fu allora che il primo ministro Černík venne informato telefonicamente dal ministro della Difesa.
L’invasione parve da subito velleitaria e priva di una finalità precisa, se non quella di mostrare la forza di Mosca e, allo stesso tempo, di annichilire le libertà praghesi. Appresa la lezione di Budapest nel 1956, i soldati avevano ricevuto ordine di non sparare sui cittadini, anche se alla fine dei giorni d’invasione si conteranno almeno 68 morti. Spararono invece sulle facciate del Museo Nazionale e della Radio cecoslovacca.

La vivace ironia praghese non tardò a definire il martoriato Museo “un’opera di El Grečko”, sfruttando la similitudine con il cognome del ministro della Difesa sovietico. Da parte sua, la radio, seppur colpita dai proiettili e sabotata dai militari invasori, riuscì quasi miracolosamente a trasmettere nei giorni successivi. In particolare le radio clandestine rimasero l’unico mezzo di comunicazione attivo nel paese e si trasformarono nello strumento di una delle più pacifiche e diffuse resistenze che la storia ricordi. Non appena i carri armati entrarono nel paese e gli aerei militari sorvolarono i cieli di Praga, si diffuse un appello raccolto da migliaia di cittadini: in poche ore scesero nelle strade con latte di vernice e cancellarono le indicazioni dei cartelli stradali oppure li invertirono, levarono i numeri civici dalle case e le targhe delle vie urbane, rendendo illeggibile il territorio e le sue strade.
I carri armati arrivarono con ritardo nelle città, alla guida di soldati spaesati non solo per il sabotaggio dei cecoslovacchi, ma perché privi di provviste sufficienti e di riserve di acqua, senza una destinazione precisa, senza nemmeno latrine da campo né abiti di ricambio. Per giorni rimasero nel centro di Praga e delle maggiori città, circondati da cittadini, avvezzi alla lingua russa fin dai tempi della scuola, che si arrampicavano sui carri, li circondavano, cercando di convincerli ad abbandonare il paese. Intorno a loro fiorirono scritte sui muri e sulle vetrine, cartelli e slogan. “Idite domoj”, “Tornate a casa!”, scritto in russo, era la più breve e diffusa, ma ve ne furono di ben altro tenore. Crebbe in fretta un’eccezionale commistione di ironia e sarcasmo, che mai cadde nell’insulto: “Il Circo di stato sovietico è di nuovo a Praga. In programma gorilla ammaestrati. Si prega di non dar loro del cibo e di non stuzzicarli” oppure “L’Urss ci ha violentato ma vuole sposarci”.

Sia fotografi che avrebbero raggiunto la fama mondiale, come Josef Koudelka, sia persone semplicemente provviste di una fotocamera, in quei giorni, si trasformarono in attenti cronisti del proprio tempo. E non mancarono di immortalare i momenti più alti della pacifica resistenza cecoslovacca. Grazie alle comunicazioni ancora possibili tramite le radio, su sollecitazione dei delegati riuniti nella sessione straordinaria del XIV Congresso che avrebbe dovuto tenersi il 9 settembre, fu possibile organizzare due momenti di protesta collettiva. Già il 23 agosto, a mezzogiorno in punto, subito dopo il suono delle sirene, tutti rimasero in assoluto silenzio per un’ora intera. Le auto e i tram si fermarono, chi era in strada si precipitò a nascondersi nei portoni e nei cortili. Per un’ora, che parve un secolo, Praga divenne deserta, i negozi chiusero, gli uffici si fermarono. Il giorno seguente, alla stessa ora e per venti minuti, fu la volta del rumore. Le sirene non smisero di suonare, mentre tutti si impegnarono a fare fracasso: mani sui clacson, pentole e posate come strumenti musicali improvvisati, saracinesche alzate e abbassate con forza, ci fu persino un violinista che improvvisò un concerto dalla veranda di casa propria.
E tutto questo avveniva mentre le sorti della nazione erano tragicamente sospese.

Dubček e i suoi collaboratori, poco dopo aver ricevuto la notizia dell’invasione, si erano gettati in confuse discussioni. In fretta redassero un comunicato congiunto che invitava la popolazione alla calma, a non opporre resistenza alle truppe e condannava l’invasione quale violazione delle norme fondamentali del diritto internazionale. Il comunicato uscì il giorno successivo in un’edizione speciale del «Rudé Právo». Attorno alle quattro del mattino, mentre una folla immensa, soprattutto di giovani, si era radunata sotto il Palazzo del Comitato centrale per esprimere solidarietà a Dubček e ai suoi, giunsero una Volga nera e una colonna di carri armati che circondarono l’edificio. La folla si oppose al passaggio, vi fu qualche contrasto e un colpo sparato dai sovietici uccise una persona. Un gruppo di militari, accompagnati da alcuni ufficiali del Kgb, salirono fino agli uffici di Dubček, dove si trovavano anche Kriegel e Smrkovský, presidenti rispettivamente del Fronte nazionale e dell’Assemblea nazionale. Anni dopo Dubček disse che tutto si svolse con tale rapidità e organizzazione che parve ai presenti una rapina a mano armata. Si trattava, invece, di un sequestro a tutti gli effetti. A Dubček e ai suoi stretti collaboratori fu imposto un assurdo viaggio attraverso la Polonia e l’Ucraina con meta finale il Cremlino. Svoboda giunse invece volontariamente poco dopo, mosso dal lucido proposito di evitare un possibile bagno di sangue.

La Primavera stava spirando, schiacciata sotto i carri armati, anche se i suoi fautori continuarono a lottare con i mezzi a loro disposizione per difendere le libertà raggiunte, l’indipendenza, la dignità.

Chi è Donatella Sasso

Laureata in Filosofia con indirizzo storico presso l’Università di Torino. Dal 2007 svolge attività di ricerca e coordinamento culturale presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino. Iscritta dal 2011 all’ordine dei giornalisti. Nel 2014, insieme a Krystyna Jaworska, ha curato la mostra Solidarność nei documenti della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano. Alcune fra le sue ultime pubblicazioni sono: "La guerra in Bosnia in P. Barberis" (a cura di), "Il filo di Arianna" (Mercurio 2009); "Milena, la terribile ragazza di Praga" (Effatà 2014); "A fianco di Solidarność. L’attività di sostegno al sindacato polacco nel Nord Italia" (1981-1989), «Quaderni della Fondazione Romana Marchesa J.S. Umiastowska», vol. XII, 2014.

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Un commento

  1. Enrico Martelloni

    Qu si dimostra l’atrocita’ ché stato l’ideologia comunista fin dalla sua origine.

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