Activists of '#merjirserjin' initiative hold a protest rally against RA Prime Minister Serzh Sargsyan on the Republic Square of Yerevan, Armenia

ARMENIA: Una rivoluzione colorata?

Nelle ultime settimane abbiamo raccontato delle manifestazioni di massa in Armenia contro l’elezione a primo ministro dell’ex presidente Serzh Sargsyan. Nel giro di pochi giorni, un sistema di potere che sembrava intoccabile ha ceduto alla forza della piazza. Il leader della rivolta, Nikol Pashinyanè stato poi nominato premier dal parlamento e ha formato un nuovo governo.

Un paese ex sovietico, un presidente rappresentante di un’oligarchia economica e vicino al Cremlino che si dimette dopo una serie di proteste pacifiche e, infine, un personaggio carismatico che emerge dalla piazza; gli ingredienti ci sono tutti: inevitabile pensare a una rivoluzione colorata.  

Sin dall’inizio, Pashinyan ha, però, preso le distanze dal passato; il nuovo premier armeno, da un palco sulla Piazza della Repubblica di Erevan, ha indetto una “Rivoluzione di velluto” e ha spiegato che la dimensione esclusivamente interna degli eventi nel paese caucasico li differenzia dalle rivoluzioni colorate.

La dialettica del leader delle proteste si è rivelata efficace in quanto il riferimento alle rivoluzioni colorate è stato quasi completamente omesso dai media che hanno coperto la situazione in Armenia. La spiegazione di Pashinyan non giustifica appieno il motivo per cui il concetto, tanto popolare fino a poco tempo fa, sia diventato uno spauracchio da evitare per il nuovo primo ministro armeno.

Le rivoluzioni colorate tra realtà e rappresentazione

Nei primi anni duemila il continente eurasiatico è stato attraversato da una serie di movimenti di protesta che vennero presto ribattezzati rivoluzioni colorate.

Nell’area post sovietica le dinamiche di queste rivoluzioni, pur in paesi diversi tra loro, sono state piuttosto simili al caso armeno: dopo elezioni farsa iniziavano proteste di massa contro i brogli e la corruzione del vecchio sistema politico che, in poco tempo, portavano alle dimissioni dei leader al potere e alla scalata al governo degli ex oppositori grazie a nuove consultazioni elettorali.

Tre casi hanno seguito questo paradigma: la Rivoluzione delle Rose in Georgia (2003), quella Arancione in Ucraina (2004) e la Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan (2005). Inoltre, le opposizioni in Azerbaijan e Bielorussia hanno tentato di emulare questi modelli nel corso del 2005. Se negli ultimi due esempi non è avvenuta una transizione di potere, essi rivelano comunque quanto l’idea di una rivoluzione colorata fosse attraente nella regione.

Questi sono i fatti, ma esiste una componente imprescindibile legata all’idea che abbiamo delle rivoluzioni colorate: le aspettative, rivelatesi presto fallaci, che esse generavano in occidente che ne hanno, inevitabilmente, influenzato la rappresentazione sulla stampa internazionale.

Secondo la giornalista Anne Applebaum, il mito delle rivoluzioni colorate che si è venuto a creare in occidente si basava sull’idea che esse fossero parte di un processo ineluttabile di transizione democratica nello spazio post sovietico. Riecheggia la famosa tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia; se la democrazia liberale era il modello uscito vincente dalla Guerra fredda, la sua affermazione globale era solo una questione di tempo. Il ruolo del cosidetto mondo libero era quello di favorire – ideologicamente e finanziariamente – le forze che si facevano promotrici del processo.

Le aspettative disattese

La realtà risulta ben diversa da quanto ci si attendeva all’epoca. La retorica filo occidentale degli ex oppositori non si rivelò efficace nel cambiare le società, nello sconfiggere la corruzione dilagante o nel creare istituzioni democratiche stabili.

Già nel 2010 si chiudeva la carriera politica di due dei leader politici usciti vittoriosi dalle rivoluzioni colorate. Nel corso dell’anno, Viktor Juščenko venne sconfitto alle elezioni in Ucraina, mentre Kurmanbek Bakiyev era costretto alle dimissioni da una nuova rivoluzione in Kyrgyzstan.

La Georgia, invece, è rimasta per qualche anno il fiore all’occhiello della narrativa occidentale sulle rivoluzioni colorate. La spettacolare – e per molti versi efficace – campagna di lotta alla corruzione, l’inglese fluente e la dialettica politica occidentale imparata alla Columbia University dal presidente Mikheil Saakashvili erano strumenti sufficienti per ammaliare gli alleati americani. Tuttavia, “il faro della democrazia” descritto da Bush nel 2005, si rivelò un paese in cui gli oppositori politici venivano arrestati e condannati grazie a prove false e dove si ricorreva alla tortura nelle prigioni.

Con l’affermazione elettorale del miliardario Bidzina Ivanishvili nel 2012, anche l’esperienza dell’ultima rivoluzione colorata  poteva dirsi conclusa.   

Il caso armeno

Quella armena non è definibile come una rivoluzione colorata proprio perché i leader politici che l’hanno organizzata non la ritengono o non la vogliono fare passare come tale. 

Sebbene le motivazioni che hanno spinto gli armeni a protestare non sono poi così diverse da quelle dei georgiani o degli ucraini nel recente passato, il marchio ha perso di appetibilità in occidente ed è, anzi, diventato sinonimo di fallimento. La storia politica del ventunesimo secolo si è rivelata più complessa di una semplice corsa alla democrazia liberale e la narrativa positivista degli anni novanta ha lasciato spazio a una visione contemporanea del futuro più realista e, per certi versi, cinica. 

Al contempo, nella retorica del Cremlino, rivoluzione colorata equivale a un complotto americano per sganciare i paesi dell’ex Unione sovietica dall’orbita russa. In un paese come l’Armenia che, come spieghiamo spesso nei nostro articoli, è legato militarmente ed economicamente a Mosca, andare allo scontro frontale con la Russia è un rischio che nessun leader politico può permettersi di correre.

In ultima analisi, Pashinyan è riuscito a ritagliarsi lo spazio di manovra per presentarsi come una novità in occidente e non scontentare il potente alleato a nord. La tattica si è rivelata vincente in quanto Mosca ha mostrato un’insolita quieta accondiscendenza rispetto a quanto stava avvenendo in Armenia, mentre la stampa internazionale celebrava la vittoria della piazza. Il futuro ci dirà se il pragmatismo di Pashinyan è il giusto approccio per lasciare un’impronta duratura sul destino del paese.

Immagine: RFE/RL

 

Chi è Aleksej Tilman

È nato nel 1991 a Milano dove ha studiato relazioni internazionali all'Università statale. Ha vissuto due anni a Tbilisi, lavorando e specializzandosi sulle dinamiche politiche e sociali dell'area caucasica all'Università Ivane Javakhishvili. Parla inglese, russo e conosce basi di georgiano e francese.

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