BALCANI: Scontro diplomatico tra Croazia e Serbia

Da BELGRADO – “Se la Croazia vuole una guerra diplomatica, la avrà”, ha dichiarato la scorsa settimana il ministro degli Esteri serbo Ivica Dacic. La dichiarazione si riferisce allo scontro, più che guerra, che sta andando in scena da qualche settimana tra Croazia e Serbia e che, secondo alcune speculazioni, potrebbe portare addirittura alla chiusura delle rispettive ambasciate.
Lo scorso aprile, infatti, Croazia e Serbia si sono scambiate reciprocamente un divieto d’ingresso per il ministro della Difesa: a quello di Zagabria, ha risposto Belgrado, generando uno scontro diplomatico, l’ennesimo, tra i due paesi.

Il tutto è iniziato per via delle commemorazioni di Jasenovac – il campo di concentramento croato dove durante la seconda guerra mondiale trovarono la morte centinaia di migliaia di serbi, rom ed ebrei – che come sempre offre un pretesto ottimo per creare zizzanie dal nulla, piuttosto che sostenere il processo di riconciliazione.

Il ministro della Difesa serbo Aleksandar Vulin aveva dichiarato che la sua partecipazione alle commemorazioni sarebbe dipesa dalla decisione del comandante supremo dell’esercito serbo, ovvero il presidente della repubblica Aleksandar Vucic e non dai ministri croati.
Una provocazione che Zagabria ha recepito come lesiva della propria sovranità nazionale – conquistata attraverso il conflitto del 1991-’95.

La risposta non si è fatta attendere e puntualmente le autorità croate hanno dichiarato Vulin “persona non grata” per via delle dichiarazioni che rappresentano “un tentativo di negare l’autorità statale della Croazia”. Una risposta a cui è seguita pochi giorni dopo la reazione del governo serbo, che in una nota ufficiale ha negato al ministro della Difesa croato Damir Krsticevic di mettere piede in Serbia.

“La Serbia considera queste azioni della Croazia contrarie allo spirito di cooperazione di buon vicinato e del rispetto dei principali valori europei, tra cui la libertà di movimento” – si legge nella nota.

Va anche detto che una settimana prima delle dichiarazioni di Vulin c’era stato un altro incidente diplomatico, quando una delegazione di parlamentari croati aveva interrotto la visita ufficiale al parlamento di Belgrado, dopo che il leader radicale e criminale di guerra Vojislav Seselj aveva vilipeso la bandiera croata e insultato i membri della delegazione. Sembrerebbe quindi verosimile che Zagabria aspettasse il pretesto più opportuno per rispondere alla provocazione.

Dal canto suo, il ministro Vulin ha accusato la Croazia di non fare abbastanza nel prendere le distanze dai crimini commessi dallo Stato Indipendente Croato durante la seconda guerra mondiale. Una polemica che indirettamente anticipa quelle che in tutta probabilità seguiranno alle commemorazioni del prossimo 12 maggio a Bleiburg, la cittadina austriaca al confine con la Slovenia dove nel 1945 molti ustaša in fuga incontrarono la vendetta dei partigiani di Tito e che ogni anno è accompagnata da slogan e simboli che richiamano la memoria della Croazia fascista.

Eppure, appena due mesi fa, il presidente serbo Aleksandar Vucic si era recato in visita ufficiale in Croazia, dedicando ampio spazio alla minoranza serba che ancora vive qui, e aveva ribadito che il ruolo della Serbia nella regione è quello di mantenere la pace e la stabilità, così come di migliorare i rapporti bilaterali tra i due paesi.

Ma si sa, le parole delle visite ufficiali servono ad offrire una buona immagine alla comunità internazionale; mentre le provocazioni politiche servono per ricompattare la nazione. Nel mezzo, la memoria di Jasenovac, Bleiburg e, di conseguenza, quella della guerra degli anni ’90, che sembra non aver altra funzione se non quella di creare inutili scontri diplomatici.
E’ un teatrino il cui copione si ispira a quello che da anni funziona benissimo per il processo di normalizzazione tra Belgrado e Pristina: mentre a Bruxelles si conducono importanti negoziati per il futuro della regione; contemporaneamente salta fuori un trenino colorato troppo vivacemente con la scritta “Kosovo è Serbia” o l’arresto troppo spettacolare del funzionario del goveno serbo Marko Djuric.

Scambiarsi provocazioni e divieti, per Belgrado e Zagabria, è funzionale alla tenuta della credibilità dei propri elettorati, tanto quanto lo è, allo stesso tempo, ergersi agli occhi dell’Unione Europea garanti del processo di pace e riconciliazione.

D’altronde, Serbia e Croazia, con buona pace dei nazionalisti, son fatte della stessa pasta, vengono da un passato comune ed è normale che approfittino di pretesti che potrebbero aiutare al futuro dei due paesi per creare invece inutili polemiche. Forse, aveva ragione lo scrittore e poeta croato Miroslav Krleza nel dire che “serbi e croati sono lo stesso pezzo di sterco di vacca diviso accidentalmente in due dalla ruota del carro della storia.”

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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