RUSSIA: La Rivoluzione russa nell’epoca di Putin, un ricordo che divide

Quest’anno la Rivoluzione d’ottobre compie cent’anni. Un anniversario importante, che abbiamo già ricordato nei nostri articoli e che viene commemorato da innumerevoli manifestazioni in tutto il mondo. “Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli“, recita un famoso aforisma, che sembra valere ovunque, tranne che nel paese culla di questo evento. Le ragioni di questa mancanza, che tutto può essere definita tranne che casuale, sono da cercare nel processo di costruzione dell’identità nazionale russa e nel ruolo che diverse “rivoluzioni colorate” hanno avuto nello spazio post-sovietico negli ultimi 15 anni.

L’effetto delle rivoluzioni nel “cortile di casa”

Una discussione sulla memoria del 1917 non può prescindere da un’analisi di ciò che il fenomeno delle cosiddette rivoluzioni colorate ha comportato per la Russia. La rivoluzione delle rose in Georgia nel 2003 e – in modo particolare – la rivoluzione arancione del 2004 in Ucraina, hanno avuto un ruolo fondamentale in alcune mosse del Cremlino poi rivelatesi determinanti. La paura di una rivoluzione colorata in casa propria ha ispirato diverse politiche – sul piano interno ed estero – attuate per proteggersi dall’influenza esterna e, allo stesso tempo, per contrastarla attivamente. Il risultato dominante di questo processo, i cui effetti sono visibili – anzi, appaiono sempre più evidenti – ancora oggi, è il cosiddetto soft power russo. Tra gli strumenti di questo “potere morbido” si può citare il canale televisivo Russia Today, fondato nel 2005 ed espressione diretta della voce del Cremlino, oltre alle numerose iniziative culturali atte a diffondere un’immagine positiva della Russia all’estero, tra le quali Russkij mir (mondo russo).

Sul piano interno, è lampante il caso dell’ormai famosa legge sulle organizzazioni non governative e sullo status di “agente straniero”, un chiaro tentativo di limitare l’influenza esterna che, in modo più o meno determinante a seconda delle varie campane, avrebbe favorito la buona riuscita delle rivoluzioni colorate in Ucraina e Georgia.

Il tentativo russo di emulare questi successi, avvenuto con le enormi proteste tra le elezioni parlamentari del dicembre 2011 e le presidenziali del marzo 2012, è stato infine brutalmente represso durante le proteste di piazza Bolotnaja del 6 maggio 2012, una svolta per la società civile e per l’atteggiamento verso le proteste di massa. Dopo il caso Bolotnaja e ai numerosi arresti, infatti, non solo il governo ha dato uno stretto giro di vite alla libertà di assemblea, ma anche la probabilità di tenere manifestazioni pubbliche è stata progressivamente ritenuta più bassa dai cittadini stessi.

Anche se una rivoluzione tra le mura del Cremlino non sembra oggigiorno minimamente pensabile, è indubbio che gli avvenimenti nei paesi limitrofi abbiano profondamente influenzato la politica russa degli ultimi 15 anni e che la parola rivoluzione non sia pronunciabile serenamente, in quanto tutto il contrario dell’ordine e della stabilità che Putin cerca di ottenere.

Un ricordo che non unifica

Come momento fondante di uno stato dipendente da un’onnipresente propaganda e retorica, la rivoluzione assumeva un ruolo centrale nella storia dell’Unione Sovietica. Gli eventi del 1917 funzionavano come un elemento unificante in senso trasversale, spesso condiviso anche tra i pochi dissidenti.

Oggi il ricordo della rivoluzione rappresenta un problema, non solo per i sopracitati e più ovvi motivi. La rivoluzione, infatti, non può più essere un elemento unificante, così come quasi nulla può esserlo – se si esclude la seconda guerra mondiale – dei settant’anni di regime sovietico. Lo aveva già capito El’cin, il quale modificò il nome della festa in “Giorno dell’accordo e della riconciliazione” e ne cambiò il significato: la nuova festa, infatti, non ricordava più il 7 novembre del 1917, bensì quello del 1941, giorno in cui i soldati sovietici marciarono al fronte direttamente dalla parata tenutasi sulla Piazza Rossa. Putin, d’altro canto, eliminò completamente ogni riferimento alla data, anticipando la festa al 4 novembre e proclamandola “Giornata dell’unità nazionale”, una ricorrenza piuttosto artificiosa, la cui popolarità rimane tutt’oggi molto bassa tra i cittadini.

In questo modo, entrambi i leader russi hanno voluto dimostrare la difficoltà nel far rientrare un tale evento in una versione positiva e unificante della storia. I settant’anni di regime sovietico sono ancora troppo controversi e ne risulta una vera e propria crisi d’identità, motivo per cui dare una visione univoca degli eventi risulta complesso e potenzialmente pericoloso. Per questo motivo, l’interpretazione di certi avvenimenti rimane in una sorta di limbo, a metà tra retorica relativista e vera complessità nella lettura degli eventi. La santificazione dello zar Nicola II da una parte, le statue di Lenin che ancora popolano piazze e strade dall’altra, mentre Stalin risulta il personaggio storico più popolare nei sondaggi. Un mix di diverse credenze che, contrariamente a quanto sembrerebbe, non necessariamente sono incompatibili, come dimostra la presenza, neanche troppo osteggiata, di icone rappresentanti Iosif Stalin.

Infine, non è da sottovalutare anche l’evidente inutilità della rivoluzione ai fini della retorica putiniana odierna. Non c’è nulla da salvare, infatti, tra i valori promossi dalla rivoluzione: non c’era nazionalismo nella rivolta proletaria e allo stesso tempo temi come autodeterminazione dei popoli e diseguaglianza economica appaiono scottanti per i leader odierni.

Con queste premesse appaiono ovvi i motivi per cui non ci saranno grosse celebrazioni come per il bicentenario della vittoria contro Napoleone, o per la vittoria nella Grande Guerra Patriottica. L’avvenimento passerà in sordina e probabilmente solo le bandiere rosse del partito comunista di Zjuganov sventoleranno a festa.

Chi è Maria Baldovin

Nata a Ivrea (TO) nel 1991, laureata in lingue e in studi sull’Est Europa. Per East Journal ha scritto prevalentemente di Russia, politiche di memoria e questioni di genere. È stata co-autrice del programma radiofonico "Kiosk" di Radio Beckwith

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