Donne (ancora) in marcia per il diritto all’aborto: una questione europea

DA BRUXELLES – “Vogliamo che i diritti riproduttivi e sessuali, incluso l’aborto, vengano considerati diritti fondamentali per l’uguaglianza in Europa!”. E’ questo uno degli slogan con cui il 28 settembre si celebra la “Giornata internazionale dell’aborto sicuro e legale”, così ribattezzata dal Women’s Global Network for Reproductive Rights, e sostenuta oggi da movimenti femministi provenienti da moltissimi paesi d’Europa e del mondo. Le origini di questa giornata risalgono al 1990, quando le associazioni femministe dell’America Latina e dei Caraibi, riunite in Argentina, stabilirono la “giornata mondiale della depenalizzazione dell’aborto”. La data fu proposta in omaggio alla cosiddetta “Legge del Ventre libero”, emanata il 28 settembre 1871, che rendeva automaticamente liberi tutti i bambini e le bambine nati in Brasile da madri schiave.

Se le rivendicazioni del movimento sono cambiate nel corso degli anni e a seconda dei paesi e dei governi ai quali si sono rivolte, è importante sottolineare come nell’anno 2017 nell’Europa unita della quale facciamo parte la questione del diritto all’aborto rimanga ancora aperta e piena di contraddizioni.

L’UE tra mancanza di competenze – e di volontà?

Le istituzioni europee non hanno competenza alcuna sulle questioni legate alla salute riproduttiva, compreso l’aborto, né all’educazione sessuale, che sono soggette alle legislazioni dei singoli stati membri. E non essendoci una politica comune all’interno dell’UE, le differenze esistenti tra un paese e l’altro sono significative: nonostante i progressi fatti, il diritto all’aborto sicuro (e legale!) non è ancora garantito a tutte le cittadine europee.

L’unico modo in cui le istituzioni europee possono intervenire, sebbene in maniera molto indiretta,  è sotto forma di raccomandazioni nei confronti degli stati membri. Ogni anno, il Parlamento Europeo vota una risoluzione con lo scopo di valutare i progressi compiuti verso la parità dei sessi nei vari paesi dell’UE.

La risoluzione approvata nel 2017 ha riaffermato tra le varie priorità quella di “garantire alle donne l’accesso alla pianificazione familiare e a tutta una serie di servizi riproduttivi e di salute sessuale, inclusi la contraccezione e l’aborto legale e sicuro”. Ma la spaccatura creatasi tra gli europarlamentari durante l’approvazione parla da sé: vi furono 369 voti a favore, 188 contrari… e 133 astenuti. Un rapido calcolo permette di rendersi conto che a sostenere questi diritti non è proprio la maggioranza dei deputati europei.

Recenti involuzioni e costanti paradossi

Non c’è da sorprendersi, poiché la tendenza generale osservabile negli ultimi anni in diversi stati europei sembra proprio allontanarsi dalla strada del progresso in materia di diritti e tutele per le donne. Abbiamo tutti sentito parlare nel settembre scorso della Polonia, già nota per la sua legislazione tutt’altro che liberale, il cui governo aveva proposto (e poi prontamente ritirato) un emendamento che proibiva di fatto l’aborto e prevedeva fino a cinque anni di reclusione per le donne che lo praticavano. Due anni prima, anche la Spagna aveva tentato una riforma simile, poi fatto un passo indietro.

Nel giugno di quest’anno si è riaperto il dibattito nell’ultracattolica Irlanda, obbligata (per la seconda volta dal 2015) da una risoluzione del Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a risarcire una donna che si era vista negare il diritto all’aborto (nonostante i medici sapessero che il feto non sarebbe sopravvissuto a causa di malformazioni) ed era stata costretta a recarsi in Inghilterra per interrompere la gravidanza. Sebbene la questione divida l’opinione pubblica, le autorità hanno annunciato per il 2018 un referendum che punterebbe a mitigare la legislazione sull’aborto, dichiarata dall’ONU “contraria ai trattati internazionali sui diritti umani”. Ce lo auguriamo, poiché nell’Europa del post-Brexit, le 3.600 irlandesi a cui ogni anno viene negato il diritto all’aborto dovranno forse trovarsi un’altra destinazione.

Per non parlare poi di Malta, unico paese membro dell’UE dove l’aborto è completamente illegale, o dell’Irlanda del Nord, che non applica sul proprio territorio la legge in vigore nel resto del Regno Unito, e dove per un aborto si rischia addirittura il carcere a vita. O dell’Ungheria di Orban che da qualche tempo cerca di seguire le orme della vicina Polonia, ad esempio offrendo generosi finanziamenti ad ospedali gestiti da organizzazioni cattoliche per assicurarsi che non pratichino aborti.

Ma anche in altri paesi europei in cui l’aborto è una pratica prevista dalla legge, ci troviamo di fronte a grandi paradossi: in primis in Italia, dove la legge 194 sancisce il diritto all’IVG, permettendo però allo stesso tempo l’obiezione di coscienza. Secondo i dati dell’ANSA, il 70% dei ginecologi italiani sono obiettori, una percentuale che supera l’80% in alcune regioni del centro-sud, e che non garantisce quindi un diritto all’aborto sicuro. Il concorso indetto a febbraio dall’ASL della regione Lazio per assumere personale medico non obiettore, era stato fortemente criticato dalla CEI e dallo stesso ministro della Salute Lorenzin – che sembra avere molto a cuore le donne italiane quando si tratta di procreare (vedi Fertility Day), ma un po’ meno quando bisogna assicurare diritti e tutele. O anche in Belgio, dove da decenni l’aborto è permesso e regolamentato, ma l’articolo 350 del codice penale che lo descrive come “un crimine contro l’ordine familiare e la morale pubblica” non è mai stato soppresso.

Una marcia europea

Quest’anno, il 28 settembre, la “Marcia delle Donne per l’aborto sicuro” che si terrà a Bruxelles lancerà nuovamente un appello alle istituzioni europee. C’è bisogno di colmare il divario esistente tra i diversi stati membri dell’Unione in materia di legislazione sull’aborto, e soprattutto di riaffermare il diritto di disporre del proprio corpo e di fare delle scelte in piena coscienza ed autonomia, che è tutt’ora negato a molte cittadine europee. E’ evidente che l’UE debba intraprendere delle misure più efficaci, e un passo avanti significativo sarebbe già l’imposizione di standard minimi per la tutela di questo diritto nei vari stati membri.

Ma ovviamente si resta nel “mondo delle idee”, e le involuzioni cui siamo confrontati ultimamente fanno pensare che l’UE non sia ancora pronta a rispondere all’appello delle donne europee. E’ questo un sintomo dell’influenza della religione e del pensiero cattolico, che permangono e fanno da scudo anche negli stati cosiddetti laici, oppure di un’Europa ancora troppo “al maschile” e legata ad una vecchia attitudine paternalista e moralista nei confronti delle donne?

Qualunque sia la risposta, è chiaro che le donne europee dovranno continuare a marciare, affinché i principi fondamentali di uguaglianza, libertà, rispetto per la dignità e i diritti umani diventino una realtà per tutti e per tutte.

Chi è Laura Luciani

Nata a Civitanova Marche, è dottoranda in scienze politiche presso la Ghent University (Belgio), con una ricerca sulle politiche dell'Unione europea per la promozione dei diritti umani e il sostegno alla società civile nel Caucaso meridionale. Oltre a questi temi, si interessa di spazio post-sovietico in generale, di femminismo e questioni di genere, e a volte di politiche linguistiche. E' stata co-autrice del programma "Kiosk" di Radio Beckwith.

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