Afronauci – un racconto polacco dell’Africa che vede la luna

di Salvatore Greco

Un’osservazione che i più attenti lettori del reportage polacco raramente mancano di fare è che dopo il 1989 la grande scuola diPoloniCult Kapuściński abbia perso un po’ il suo respiro globale, un tempo avremmo detto “internazionalista”, preferendo in buona parte concentrarsi sulla Polonia stessa o al massimo sulle sorti dei paesi vicini e fratelli nella mai indolore transizione alla democrazia liberale. Non ci sono solide basi scientifiche a conferma né numeri impeccabili, ma di certo l’uscita per Czarne la scorsa primavera di un volume dedicato allo Zambia è suonato come una nota fresca e piacevolmente dissonante nel panorama contemporaneo, anche per il tema che l’autore Bartek Sabela ha scelto per questo suo Afronauci. Z Zambii na Księżyc (Afronauti. Dallo Zambia sulla luna), ovvero la storia di Edward Mukuka Nkoloso, co-protagonista delle lotte per l’indipendenza del suo Paese dall’impero britannico e convinto assertore di una cosa tanto semplice quanto pazzesca: lo Zambia libero potrà mandare un uomo nello spazio prima di sovietici e americani.

È evidente già da queste note storiche come il reportage di Sabela non sia tecnicamente in presa diretta, quanto più il lavoro di uno storico amatore; dopotutto Nkoloso è morto nel marzo dell’89 e la storia della conquista dello spazio è nota a tutti, scettici compresi. Afronauci è una storia di ricostruzione, di ricerca di voci perdute e arruffate nel chiacchiericcio cantilenato dell’Africa nera, del tentativo di ricomporre un puzzle inconcludente e inconcluso, cosa di cui l’autore non fa in nessun modo mistero.

Dallo Zambia…

Prima di addentrarci nel racconto di Afronauci è forse bene dare delle coordinate di inquadramento che Sabela stesso dà ma senza esagerare, sperando nelle conoscenze post-coloniali dei suoi lettori. Lo Zambia odierno è uno stato di vasta estensione dell’Africa centro-meridionale, vicino orientale di quell’Angola a cui Kapuściński ha dedicato il suo splendido Ancora un giorno. L’autore racconta bene, con dovizia di dettagli ma senza esagerare, la situazione dello Zambia coloniale, allora parte del protettorato britannico della Rodesia settentrionale. Un regime di apartheid duro non troppo diverso da quello consegnato alla storia dalle lotte di Nelson Mandela in Sud Africa. È in questo contesto che inizia a farsi strada la figura di Edward Mukuka Nkoloso, figlio di un cuoco dell’esercito che da giovane sente la vocazione del seminario e finisce invece scelto come carne da cannone dall’impero britannico per combattere la II guerra mondiale. È in una delle loro conversazioni nella periferia di Lusaka che il figlio di Nkoloso, superato lo scetticismo iniziale, racconta a Sabela la storia del padre, cheAfronauci naturalmente è diventato tale per essere sopravvissuto alla guerra e rinsavito dai propositi confessionali. Inizia poi il trambusto dei moti anticoloniali in cui gli ex-soldati come Nkoloso giocano la loro parte non solo nella consapevolezza di cosa l’impero britannico pensa dei suoi sudditi africani ma anche nelle capacità organizzative e nelle doti di guerriglia, per quanto queste fossero sempre state stemperate dal leader dello United National Indipendence Party (UNIP) e futuro presidente dello Zambia libero, Kenneth Kaunda. Si tratta di un mondo in cui fervono come in un formicaio alacre centinaia di organizzazioni, partiti e soprattutto piccole chiese di ispirazione cristiana –Sabela fa dire alle sue fonti che ce ne è praticamente una diversa per ogni casa di Lusaka- tutte a guida carismatica e tutte motivate da un passaggio fondamentale che spiega la liberazione dei neri in chiave cristologica: la sofferenza, il martirio e la liberazione. Nkoloso stesso non è immune a questo retroterra e anzi il suo nazionalismo nero con radici mistiche è alla base del suo progetto che verrà. Nel frattempo la Rodesia collassa e lo Zambia diventa indipendente (quasi) senza che venga sparato un colpo. Kaunda diventa presidente e Nkoloso fonda la Accademia delle Scienze e delle ricerche cosmologiche e filosofiche.

…alla luna.

La seconda parte del racconto di Sabela si sposta dalla storia al mito, l’impronta dell’autore si fa più marcata, la sua partecipazione più sentita, Nkoloso più vivo che mai nonostante siano passati 28 anni dalla sua morte e le tracce su di lui sempre più difficili da rintracciare. I racconti del figlio non bastano più, l’autore va in cerca di archivi dove però regna la confusione inevitabile di uno Stato relativamente giovane ed estremamente povero ma si scontra con l’assurdità di un uomo che pare scomparso dalla memoria collettiva nonostante fosse stato uno dei protagonisti della vita pubblica negli anni dell’indipendenza. Nkoloso è una macchia confusa nella notte africana e dei suoi progetti sembra sia rimasto poco, ma sufficiente ad avere chiaro che succede. La storia di per sé è semplice, la corsa allo spazio è in pieno fervore e Nkoloso vuole parteciparvi:

’Sikota, non pensi che siamo in grado di fare quello che fanno i bianchi?’. ‘A cosa ti riferisci di preciso?’ gli chiesi. ‘Beh, a tutta quella storia della corsa allo spazio’ mi rispose. Mi misi a ridere forte. Non mi era mai passato per la testa! Certo, avevo sentito che gli americani stavano provando a mandare un uomo sulla luna. Gli dissi: ‘Non ti sembra che abbiamo cose più importanti di cui occuparci ora che arrivare sulla luna? Per esempio liberare definitivamente il nostro Paese!’. Non mi sembrò convinto, anzi, l’esatto contrario. Mi ripeté “No, no, dobbiamo mostrare ai bianchi che anche noi siamo in grado di farlo, qui, a Lusaka!’

Non è il sogno vanesio di un uomo capriccioso a caccia della realizzazione della vita, lo spazio per Nkoloso è parte fondante della liberazione coloniale, un moto di orgoglio antirazzista che va di pari passo con l’indipendenza dello stato. È così che Sabela disegna, con la fatica delle fonti rimaneggiate a cui attinge, un eroe cristallino nel suo essere sconclusionato, razionale nel suo essere picaresco, umano e dignitoso nel suo essere irreale. Come il Don Chisciotte di Guccini (ben diverso da quello originale), Nkoloso è il combattente fiero di una battaglia che forse in cuor suo sa di non poter vincere, ma che non può rinunciare a combattere, per nessun motivo, perché è parte fondante della missione a cui ha dedicato la sua vita e che sente di dover onorare fino alla fine.

Sabela allora rincorre le fotografie, i reportage dei giornalisti britannici e americani che avevano sentito parlare della sua storia e se ne erano interessati e le tracce concrete dell’Accademia di Nkoloso, dei modelli di razzi costruiti. Ritrova i nomi e le voci di alcuni dei dodici (numero non casuale nella continua cristologia della salvezza del popolo oppresso) allievi destinati a essere i primi uomini nello spazio e ritrova soprattutto note di corrispondenza che dimostrano il rallentamento e il fallimento del progetto. La fiducia di Nkoloso sembra durare fino alla fine, con la convinzione quasi messianica che ‘entro la fine del 1965 i primi cittadini dello Zambia atterreranno sulla luna. I miei astronauti sono pronti nonostante le difficoltà incontrate’. Le fonti del governo, compresa un’eloquente lettera del ministero dell’Energia e dei Trasporti, riportano una realtà diversa, più amara, una realtà nella quale il governo non ha mai ufficialmente appoggiato il programma spaziale di Nkoloso e che quindi esso è da considerarsi fallito.

A rendere Afronauci un reportage splendido della già di per sé ricchissima collezione di Czarne non è solo il tema e la scelta così retrò di occuparsi di un argomento lontano nello spazio e senza dirette ricadute nel presente, ma anche il modo in cui il giovane (è un classe ’82) Bartek Sabela lo costruisce. La voce del reporter si sente forte e chiara sia nel comunicare impressioni a margine sia nel creare la storia ipso facto, ma a differenza di altri esempi dove prevale un tono saccente e consumato, Sabela non cade nel tranello del colonialismo di ritorno e nemmeno in quello della santificazione in nome del senso di colpa occidentale: i racconti che fa delle periferie di Lusaka come degli arruffati uffici pubblici non trasmettono grossolani stereotipi sull’Africa e nei confronti della storia si pone con un rispetto e un incanto che –ci permettiamo di dire- avrebbero inorgoglito Ryszard Kapuściński.

Io stesso non so perché questa storia mi affascini così tanto […] C’è qualcosa di commovente in questa fede semplice e ingenua in cose così grandi, che non si fa limitare dalla contingenza, dalle difficoltà, che non si cura delle possibilità tecniche e finanziarie. Un sogno in quanto tale, puro, cristallizzato, molto vicino alla follia.

Il presente articolo è uscito originariamente su PoloniCult.

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